mercoledì 20 luglio 2022

Il Mistero di Atlantide e dell’Antica Città Perduta.

Mille ipotesi, nessuna certezza.

In un tempo lontano, fatto di miti e leggende, di eroi mortali e dèi capricciosi, al di là delle Colonne d’Ercole “avvennero terribili terremoti e diluvi” e, in un solo giorno e una sola notte, l’isola-continente di Atlantide sprofondò negli abissi dell’oceano. Secondo Platone, tutto ciò ebbe luogo 9.000 anni prima della nascita di Solone, colui che il filosofo ateniese indicò come sua fonte principale e iniziatore del mito di Atlantide.


Mappa immaginaria di Atlantide


Il mito di Atlantide secondo Platone

La storia di Atlantide ebbe inizio con il Timeo e il Crizia, due dialoghi scritti da Platone intorno al 360 a.C. Attraverso i personaggi di Socrate, Ermocrate, Timeo di Locri e Crizia, suo antenato e capo dei Trenta Tiranni di Atene, il filosofo raccontò di Atlantide, un’isola-continente “più grande della Libia e dell’Asia”, all’epoca il Nord Africa e l’Anatolia, che si trovava nell’Oceano Atlantico e al di là delle Colonne d’Ercole.

Busto di Solone


La fonte di Platone era il politico Solone, che ne aveva scoperto l’esistenza durante un viaggio in Egitto: il sacerdote Sonchis gli parlò di un’antica battaglia fra Atene e Atlantide.


Statua di Poseidone


In origine, gli dèi si divisero le terre. A Poseidone toccò Atlantide e nella parte centrale dell’isola c’era una pianura, dove abitava una fanciulla di nome Clito. Il dio del mare se ne innamorò e con lei generò cinque coppie di gemelli; poi fortificò la pianura con cinque cerchi concentrici, due di terra e tre di mare, e rese Atlantide un regno fertile e prosperoso, che divise in dieci regioni, ognuna con a capo uno dei suoi figli con Clito.


Schema della regione centrale di Atlantide. La capitale aveva attorno cinque cerchi concentrici, due di terra (in bianco) e tre di acqua (in azzurro)

Come i contemporanei di Platone vedevano il mondo e le terre conosciute


Ma col passare dei secoli i re persero di vista i principi di giustizia ed equità e si macchiarono di egoismo.

L’opulenza e la distruzione di un impero. Dipinto di Thomas Cole


Quando però la parte di divino venne estinguendosi in loro, mescolata più volte con un forte elemento di mortalità e il carattere umano ebbe il sopravvento, allora, ormai incapaci di sostenere adeguatamente il carico del benessere di cui disponevano, si diedero a comportamenti sconvenienti”.


L’opulenza e la distruzione di un impero. Dipinto di Thomas Cole


Il pomo della discordia fu la guerra con Atene. Atlantide cercò senza successo di invaderla e si procurò l’ira di Zeus, che ne ordinò la distruzione. In un solo giorno e una sola notte, terremoti e tsunami si abbatterono sull’isola-continente, i suoi territori sprofondarono e restò solo un ammasso di fango che rese le acque impraticabili.


Illustrazione delle Colonne d’Ercole


L’America e la Svezia.

In età antica, e durante il Medioevo, Atlantide non suscitò grande interesse, ma, quando Colombo scoprì l’America qualcuno ipotizzò che l’esploratore fosse partito per provarne l’esistenza. In quest’ottica la leggendaria isola-continente, o, almeno, ciò che ne restava, era proprio l’America, e i nativi americani rappresentavano i superstiti del disastro naturale.


Mappa delle ipotetiche posizioni di Atlantide nel mondo


Anche se il filosofo ateniese aveva indicato la posizione di Atlantide vicino alle Colonne d’Ercole, ovvero l’odierna Gibilterra, la fantasia degli studiosi si scatenò.

Olaus Rudbeck


A fine XVII secolo, lo scienziato svedese Olaus Rudbeck spostò Atlantide nelle regioni scandinave e, per giustificare il passaggio della Svezia a grande potenza europea, la identificò con la sua madre patria.

La Svezia al massimo dell’espansione territoriale, a seguito del Trattato di Roskilde nel 1658 – Immagine di MPorciusCato


Rudbeck scrisse che l’Atlantide nordica era stata la culla della civiltà, il luogo dove erano vissuti Adamo ed Eva e dove si parlava lo svedese, dal quale erano derivati l’ebraico e il latino.

Olaus Rudbeck svela ai suoi “predecessori” Esiodo, Platone, Aristotele, Apollodoro, Tacito, Odisseo, Tolomeo, Plutarco e Orfeo la “verità” su Atlantide.


L’Atlantide iperborea di Bailly.

Nel Settecento il francese Jean Sylvain Bailly unì il mito di Atlantide a un altro mito greco, quello della leggendaria Iperborea, e alle ipotesi paleoclimatiche di Jean Jacques Dortous de Mairan e Georges-Louis Leclerc de Buffon.

Jean Jacques Dortous de Mairan


Per Mairan e Buffon in origine la terra era incandescente e inabitabile, e solo col passare dei secoli si era raffreddata fino a raggiungere le temperature a noi conosciute.

Georges-Louis Leclerc de Buffon


L’unica zona mite era l’estremo nord dell’Eurasia, la Siberia, dove, secondo Bailly, sorse la società atlantidea-iperborea, che creò le arti e la scienza e, quando il pianeta cominciò a raffreddarsi, si spostò verso sud per civilizzare i cinesi e gli egizi.


Jean Sylvain Bailly


L’Atlantide antidiluviana di Donnelly.

Nel 1882, lo statunitense Ignatius Donnelly pubblicò Atlantis: The Antidiluvian World, un trattato pseudo-archeologico in cui riportò Atlantide nell’Oceano Atlantico, dove era stata una prosperosa culla della civiltà, poi distrutta da una catastrofe naturale.

La caduta di Atlantide in un dipinto di Monsù Desiderio.


L’esodo dei sopravvissuti aveva dato vita al mito del diluvio universale e gli stessi dèi greci, indù, fenici e scandinavi erano i re, le regine e gli eroi dell’isola, la cui memoria aveva subito delle storpiature attraverso la tradizione orale.

Testa ritraente Platone, rinvenuta nel 1925 nell’area sacra del Largo Argentina a Roma e conservata ai Musei Capitolini.


Donnelly rielaborò anche diversi capitoli di storia. Gli atlantidei erano stati i primi a lavorare il bronzo e il ferro, avevano creato un alfabeto da cui era derivato quello fenicio, capostipite di tutti gli alfabeti europei, e avevano trasmesso parte della loro cultura ai Maya.


Ignatius Donnelly.


La teoria teosofica delle razze-radice

Sempre in quegli anni, il mito di Atlantide divenne oggetto di studio della teosofia e, grazie ad alcuni suoi esponenti, come Helena Blavatsky, Annie Besant e Rudolf Steiner, si giunse alla cosiddetta tesi delle razze-radici.

Sempre in quegli anni, il mito di Atlantide divenne oggetto di studio della teosofia e, grazie ad alcuni suoi esponenti, come Helena Blavatsky, Annie Besant e Rudolf Steiner, si giunse alla cosiddetta tesi delle razze-radici.

La teosofa Helena Blavatsky.


I teosofi, la cui dottrina filosofico-religiosa mischiava misticismo e indagine scientifica, pensavano che l’umanità fosse divisa in sette razze-radice e a ciascuna di esse corrispondesse sia un’epoca storica sia un tipo di sviluppo delle capacità umane. Le prime cinque razze di questa teoria sono la Polare, l’Iperborea, la Lemuriana, l’Atlantidea e l’Ariana.


Ipotetica mappa di Atlantide realizzata nel Seicento.


Quest’ultima è la nostra razza attuale e le ultime due ancora non sono comparse, ma porteranno le persone a trascendere la loro natura umana per trasformarsi in esseri divini. Ogni razza-radice, a sua volta, ha sette sotto-razze e noi della razza Ariana deriviamo dalla quinta sotto-razza degli Atlantidei, i Protosemiti. La prima sotto-razza atlantidea erano i Rmoahals, che svilupparono il linguaggio; seguirono i Tlavatli, gli artefici della nascita della memoria, e i Tolteki, la cui civiltà corrispondeva al periodo di massimo splendore di Atlantide.


Illustrazione ipotetica della città principale di Atlantide.

La decadenza ebbe inizio con i Turanici, puniti con terremoti e tsunami per il loro egoismo. Le ultime tre sotto-razze erano i Protosemiti, gli Accardi e i Mongoli, che cercarono di porre rimedio agli errori dei predecessori.


Mappa della presunta estensione dell’Impero Atlantideo.


Il punto in comune di queste sotto-razze è che tutti gli Atlantidei possedevano poteri sovrannaturali e la distruzione dell’isola fu colpa dei Turanici, che iniziarono ad abusare della magia per scopi personali e a mettersi gli uni contro gli altri.

Il teosofo Rudolf Steiner.


La teoria delle razze-radice ebbe un seguito con il Terzo Reich,il cui interesse per l'esoterismo e ben noto. Alcuni gerarchi nazisti, fra cui Alfred Rosenberg ed Heinrich Himmler, diedero adito alla leggenda della discendenza atlantidea degli ariani e, per cercare i resti dei loro mitologici antenati, promossero una serie di spedizioni, ovviamente infruttuose.

Alfred Rosenberg.


L’eruzione del Thera e la distruzione di Santorini.

Misticismo e razze a parte, qualcuno ipotizzò che l’impossibilità di giungere a una localizzazione certa fosse imputabile a Solone, ovvero alla fonte storica di Platone, e che i sacerdoti egizi che gliene avevano parlato fra il VII e VI secolo a.C. avevano sbagliato a tradurre le date: anziché esser stata distrutta 9.000 anni prima, Atlantide era affondata 900 anni prima.

Le rovine di Atlantide in un’illustrazione di Alphonse de Neuville ed Edouard Riou.


Questo dubbio sulla datazione ci porta intorno al 1628 a.C., quando, nel mar Egeo, Santorini fu vittima di una violentissima eruzione del vilcano Thera, a cui seguì un terribile maremoto, che fece collassare la parte centrale dell’isola, lasciò intatte le zone esterne e le diede l’attuale conformazione.

L’isola di Santorini.


Si presume che l’eruzione del Thera abbia contribuito alla fine della civiltà minoica, e alcuni superstiti sarebbero fuggiti in Egitto, dove i sacerdoti ne tramandarono i racconti attraverso una veste mitologica.

Il cratere centrale a Nea Kameni, nella caldera di Santorini.


La Sardegna.

Un’altra teoria identifica Atlantide con la Sardegna e si basa su una serie di analogie con i dialoghi di Platone. Il filosofo parla delle Colonne d’Ercole, ma anziché dello stretto di Gibilterra potrebbe trattarsi del canale di Sicilia.


Vista della Rocca di Gibilterra


Le fonti egizie del II millennio a.C., infatti, citano gli Shardana, presunti antenati dei sardi, come uno dei Popoli del Mare che, sul finire dell’età del Bronzo, invasero l’Anatolia, la Siria, la Palestina, Cipro e l’Egitto.


Mappa delle ipotetiche posizioni di Atlantide nel Mediterraneo.


La stessa Sardegna ha una conformazione del territorio che ben si sposa con la descrizione di Atlantide, e la grande pianura centrale dove Poseidone incontrò Clito corrisponderebbe alla pianura del Campidano. La capitale protetta da cinque cerchi concentrici di acqua e di terra coinciderebbe con la città di Santadi, che a livello urbanistico si sviluppa in cerchi concentrici con porzioni montuose. Ma anche l’intera zona ha continui rimandi toponomastici al testo di Platone e agli interventi del dio del mare.


La pianura del Campidano.


Il filosofo scrisse: “Egli stesso poi abbellì facilmente, come può un dio, l’isola nella sua parte centrale, facendo scaturire dalla terra due sorgenti di acqua, una che sgorgava calda dalla fonte, l’altra fredda”.


Veduta di Santadi.


Nei pressi di Santadi, il comune di Nuxis ha tre frazioni che si chiamano Acquacadda, S'acqua callenti de basciu, e S'acqua callenti de susu, , rispettivamente acqua calda, l’acqua calda di sotto e l’acqua calda di sopra. Spostandoci più a nord, dalle parti di Siliqua, troviamo le sorgenti d’acqua di Zinnigas e il Castello di Acquafredda.


Le rovine del castello di Acquafredda.


L’utopia del governo ideale e la Sicilia.

In questo mare di ipotesi, però, tutti gli studi relativi alla teoria della deriva dei continenti hanno escluso che possa essere esistita una terra emersa e affondata come quella di Atlantide, e gli unici ragionamenti sensati appartengono alla vera natura dei dialoghi platonici.

Manoscritto medievale con la traduzione del Timeo in latino.


Nel 404 a.C., Atene perse la guerra del Peloponneso contro Sparta e nella polis si insediò un governo di oligarchi, i famosi Trenta Tiranni, poi rovesciati da una rivolta civile che ristabilì la repubblica. Tutti questi sconvolgimenti spinsero Platone a elaborare una sua teoria politica, con i filosofi al vertice della piramide sociale perché garanti della giustizia e dell’armonia fra le classi, ma quel governo ideale non era attuabile ad Atene.

Particolare della Scuola di Atene di Raffaello. A sinistra c’è Platone, ritratto con il volto di Leonardo da Vinci, e a destra c’è Aristotele.


Dal 390 al 360 a.C., compì tre viaggi a Siracusa e tentò, senza successo, di influenzare i due tiranni della città, Dionisio I e Dionisio II. Nemmeno in Sicilia la sua utopia trovò spazio e, quando tornò ad Atene, scrisse i dialoghi di Timeo e Crizia per mostrare, attraverso il mito di Atlantide, cosa succede a una società altamente civilizzata se si ha la decadenza dei costumi.

Un dipinto con Dionisio II (in piedi).


L’intento allegorico dei dialoghi è quasi universalmente condiviso, ma ciò non esclude che, per creare Atlantide, Platone abbia comunque preso spunto dalla realtà. Se il mito del cataclisma assomiglia agli eventi che portarono alla distruzione di Santorini, sul fronte geografico, il filosofo mise insieme diversi elementi della Sicilia, che ebbe modo di visitare in lungo e largo durante i tre soggiorni siracusani.

La Piana di Catania.


Atlantide aveva una grande pianura, proprio come la Sicilia ha la piana di Catania, che si estende per 430 km².


L’isola di Ortigia.


Il palazzo reale atlantideo si trovava in una zona decentrata, con attorno cinque cerchi concentrici; una posizione che sembra richiamare l’isola di Ortigia, dove vi era il palazzo dei tiranni di Siracusa, e, per come è collocata all’interno della laguna dello Stagnone di Marsala, l’antica isola di Mozia, oggi San Pantaleo.


L’isola di San Pantaleo (in giallo) e le altre isole dello Stagnone di Marsala.


Ma giunti a questo punto, l’unico pensiero che ben si sposa con la storia di Atlantide e la sua affascinante civiltà, è di un allievo di Platone.

Busto di Aristotele.


È inutile arrovellarsi su dove si trovasse e su cosa le sia successo. Come disse Aristotele:

Atlantide, chi l’ha inventata, l’ha fatta anche scomparire.


martedì 19 luglio 2022

Le straordinarie avventure di tre esploratori verso la leggendaria Timboctù.

La ricerca delle sorgenti del fiume Niger

Londra, 1788 – Non era passato molto tempo dalla fondazione dell’African Association quando, a pochi giorni dalla prima riunione, era già stato trovato un volontario pronto a partire per un viaggio di esplorazione: si trattava di Simon Lucas, ex commerciante di vino che, dopo essere stato catturato dai pirati e da questi venduto come schiavo, era diventato un diplomatico presso la corte imperiale del Marocco. Lucas tuttavia si ammalò prima della partenza, per cui la scelta ricadde su un secondo candidato, l’americano John Ledyard. Visto il curriculum di quest’ultimo, difficilmente si sarebbe potuto considerare un ripiego: giunto in Europa su un mercantile, si era prima arruolato nella Royal Navy e in seguito aveva fatto parte dell’equipaggio del capitano Cook.


John Ledyard


Ledyard quindi, appena tornato da un viaggio di esplorazione in Siberia, fu ingaggiato per intraprendere “un’avventura quasi altrettanto pericolosa di quella da cui era appena tornato”.

L’esploratore si sarebbe dovuto imbarcare a Marsiglia alla volta dell’Egitto, viaggiare verso La Mecca, da dove avrebbe dovuto raggiungere la Nubia, attraversare il deserto e arrivare fino al fiume Niger: più di 20 mila chilometri da percorrere dopo essere tornato da un viaggio di 11 mila durato due anni. Sfortunatamente quell’uomo che sembrava essere stato “creato per trionfare su privazioni e pericoli” trovò la morte a seguito delle infauste cure a cui si sottopose per guarire dei crampi allo stomaco dovuti forse a un’intossicazione alimentare. Il nostro eroe non era riuscito a spingersi oltre a Il Cairo.


Mappa del fiume Niger.



Nemmeno il terzo volontario ebbe maggiore fortuna: di Daniel Houghton, ex soldato irlandese, si perse ogni traccia nel 1791, ad un anno dalla sua partenza.


Mungo Park.

Tuttavia per il successo non si sarebbe dovuto attendere ancora molto: il quarto candidato si sarebbe presto messo in viaggio. Nonostante gli incredibili pericoli corsi, Mungo Park riuscì infatti a raggiungere il Niger e a fare ritorno in patria sano e salvo.


Mungo Park


Durante il suo viaggio Park si ammalò di malaria e fu fatto prigioniero dal crudele sovrano del Ludamar (luogo dove scoprì essere morto Houghton).

Dopo aver subito numerose minacce di morte, nonché umiliazioni, l’esploratore riuscì a fuggire e ad arrivare alla sua prima meta: la sorgente del grande fiume Niger. Da qui proseguì per Ségou, capitale della Nazione Bambara e città di grande “civiltà e magnificenza”, senza tuttavia riuscire ad ottenere dal sovrano Masong l’autorizzazione ad entrare. Park cercò quindi ospitalità in un villaggio vicino, ospitalità che i diffidenti abitanti si rifiutarono tuttavia di fornire. Solo la pietà di una donna di ritorno dai campi lo salvò da una notte all’addiaccio, alla mercé delle bestie feroci.

Le figlie della padrona di casa intonarono anche una canzone in onore dell’ospite, il quale, comprensibilmente si commosse:

Il vento urlava e cadeva la pioggia; debole e stanco, il povero uomo bianco è venuto a sedersi sotto il nostro albero; non ha una mamma che gli porti il latte né una moglie che gli macini il grano. Ritornello: Compatiamo l’uomo bianco una mamma lui non ha”.


Tracciato delle due spedizioni di Mungo Park sul Niger.


A seguito di questi eventi Park proseguì fino a raggiungere Silla dove ottenne preziose informazioni su quella che sarebbe dovuta essere la sua meta finale: la leggendaria Timbuctù. La pericolosità del viaggio e la prospettiva di portarsi nella tomba tutte le scoperte faticosamente conquistate indussero tuttavia l’esploratore a iniziare il viaggio di ritorno. Park nel 1797, a due anni e sette mesi dalla sua partenza, sbarcò a Falmouth facendo ritorno nel Regno Unito.


René Caillié

2 Luglio 1816 – La fregata Méduse naufraga al largo del Senegal; alle scialuppe di salvataggio l’arduo compito di portare al sicuro i membri dell’equipaggio. Ma non tutti sono così fortunati da riuscire a trovare posto, anzi. Ben 147 persone saranno relegate su una zattera di fortuna. Soltanto 15 di loro sarebbero sopravvissute e tra queste c’è René Caillié, di appena 16 anni.


René Caillié, olio su tela – 1830 circa.


Il ragazzo, figlio di un detenuto e orfano dall’età di 11 anni, aveva preso parte a quello sfortunato viaggio dopo essere scappato di casa con l’intento di esplorare il continente africano. In seguito il giovane rischiò nuovamente la vita dopo essersi unito ad una carovana destinata a portare rifornimenti ad una spedizione inglese. La compagnia infatti non affrontò il viaggio del deserto con sufficienti scorte di acqua e molti dei suoi componenti, disperati, furono costretti a bere la propria urina. Lo stesso Caillié sopravvisse a febbre e disidratazione riuscendo miracolosamente a fare ritorno a Parigi.

Disavventure di questo genere avrebbero fatto tentennare chiunque dai propri propositi di esplorazione. Non Caillié, che evidentemente possedeva una determinazione fuori dal comune. Non soltanto sarebbe ripartito alla volta del continente nero, ma lo avrebbe fatto da solo. Convinto del fatto che nei precedenti viaggi aveva rischiato la vita per via dell’incompetenza dei propri superiori, decise di organizzare lui stesso una spedizione.

Gli Inglesi avevano tentato l’esplorazione dell’Africa contando sulla propria potenza militare ed economica, mentre Caillié, uomo di umili origini, fece invece affidamento unicamente sul proprio ingegno. Il francese programmò quindi di fingersi un egiziano povero in viaggio verso Alessandria. Allo scopo di rendere credibile la propria copertura si preparò per tre anni, imparando l’arabo e studiando i testi sacri dell’Islam.


René Caillié in abito arabo.


La copertura si sarebbe rivelata preziosa: un poveretto, specie se musulmano, non era certo una preda appetibile per i predoni. Caillié, grazie alla sua astuzia, riuscì quindi a raggiungere la propria destinazione arrivando nella leggendaria Timbuctù.


La casa in cui René Caillié visse a Timbuctù, come era visibile nel 1905.


Le recenti spedizioni britanniche, costate l’astronomica cifra di 750.000 sterline, erano fallite miseramente. Caillié invece aveva raggiunto la meta contando unicamente sulle proprie forze, e aveva destinato poi la ricompensa ottenuta (10.000 franchi) dalla Société de Géographie alla sorella, che viveva in povertà. René Caillié fu quindi il primo europeo dai tempi di Leone l’africano (XVI sec.) a raggiungere Timbuctù e fare ritorno a casa sano e salvo.


Vista panoramica di Timboctù – 1860 circa.


Alexander Gordon Laing

Un paio d’anni prima un altro esploratore era riuscito a raggiungere la città, venendo tuttavia assassinato durante il viaggio di ritorno.

Alexander Gordon Laing aveva intrapreso la carriera militare, ottenendo la carica di maggiore nell’esercito inglese. Nonostante fosse, a detta di Sir Charler Turner, suo ufficiale in comando durante la stanza in Sierra Leone, “un individuo incauto e poco virile” Laing riuscì ad ingraziarsi Lord Bathurst, ministro della guerra e delle colonie, che lo pose a capo della missione Timbuctù. A differenza di Caillié, Laing non aveva alcuna intenzione di celare la propria identità, né tantomeno di fingersi musulmano per nascondere la sua reale fede.


Alexander Gordon Laing


Un atteggiamento tanto imprudente finì quindi per complicare un viaggio già di per sé colmo di insidie. Shaykh Babani, mercante di schiavi e guida di Laing verso Timbuctù, avrebbe reso la vita dell’esploratore molto difficile. Babani, “un tipo imbelle, tranquillo e innocuo” per Laing , “una delle persone più squisite che avessi mai visto, dal carattere estremamente mite e un volto amabilissimo”, secondo il console britannico a Tripoli Hanmer Warrington, in realtà consegnò l’esploratore inglese ad un gruppo di predoni Tuareg, i quali lo sorpresero nella notte colpendolo con 24 coltellate.

Laing, gravemente ferito ma miracolosamente vivo, riuscì comunque a percorrere i 640 chilometri che lo separavano dal territorio dello sceicco Sidi Muhammad, guadagnandosi la protezione di quest’ultimo. Sfortunatamente le sventure del povero Laing erano tutt’altro che concluse. Durante il suo periodo di permanenza nella zona, un morbo simile alla febbre gialla colpì la popolazione locale mietendo molte vittime, tra le quali appunto il generoso sceicco. Lo stesso esploratore fu colpito dalla malattia, riuscendo tuttavia a sopravvivere.


Riva del Niger vicino a Timboctù.



Le condizioni di salute di Laing erano precarie, la strada da percorrere ancora lunga e abitata da popolazioni ostili ai “visitatori” europei. Eppure, nonostante i numerosi avvertimenti ricevuti dal primogenito di Sidi Muhammad, l’esploratore fu irremovibile: bisognava arrivare a destinazione.

Laing credeva da tempo di essere un predestinato e l’esser sopravvissuto a tutte le sciagure che gli erano capitate fino a quel momento non aveva fatto altro che rafforzare la propria convinzione. Grazie a una determinazione che rasentava la follia Laing arrivò a Timbuctù, di fatto il primo europeo in grado di raggiungere la città ed inviare un resoconto in patria.


La casa di Gordon Laing a Timbuctù.


Il prezzo da pagare per un’impresa tanto coraggiosa sarebbe stato tuttavia altissimo: durante il viaggio di ritorno deviò nel deserto al fine di evitare l’ostilità degli uomini del Re musulmano Lobbo, ma qui trovò la morte, probabilmente per mano della sua nuova guida e dei suoi servi.



lunedì 18 luglio 2022

Gli ultimi momenti del Titanic fra Eroi e Vigliacchi.

Il comportamento umano è difficile da giudicare a posteriori e a mente fredda. Ci sono però alcuni comportamenti talmente eccezionali davanti al pericolo ed alcuni, al contrario, talmente vergognosi che è difficile non commuoversi o indignarsi.

Durante la tragica notte del naufragio del Titanic ci furono dei coraggiosi che, a rischio della vita, continuarono a fare il loro dovere.

Fra loro ricordiamo gli 8 orchestrali che continuarono a suonare fino all’ultimo momento per cercare di tenere alto il morale dei passeggeri. Dei musicisti non ne sopravvisse alcuno e solo 3 corpi furono ritrovati.



Si possono ricordare i fuochisti e il personale della sala macchine, che restarono al loro posto per far funzionare le pompe e la dinamo e cercare di rallentare l’entrata dell’acqua e soprattutto per conservare la corrente necessaria all’illuminazione e alla sala radio per le richieste di soccorso.

Il personale della sala macchine morì, quasi dimenticato.

Furono tanti e morirono quasi tutti.

Sotto, Harold Bride:


I due marconisti Harold Bride e Jack Phillips, che continuarono a mandare il segnale di SOS fino a quando il Capitano stesso andò a sollevarli dal compito dando l’ordine del “si salvi chi può”. Raggiunsero a nuoto il pieghevole B: Harold Bride si salvò, nonostante fosse ferito mentre Jack Phillips invece morì dopo poco per ipotermia.


Sotto, Jack Philips:



Harold Lowe, 5° ufficiale, imbarcato sulla scialuppa numero 14.

Dopo essersi allontanato dalla nave, a distanza di sicurezza, trasbordò i passeggeri su altre scialuppe poco cariche e tornò indietro a cercare dei superstiti in acqua. Fu l’unica scialuppa a tornare indietro, le altre si erano tutte allontanate per paura che l’assalto dei naufraghi li facesse rovesciare.

Purtroppo era tardi, recuperò solo 4 persone, delle quali una morì poco dopo.

Fra i passeggeri che cedettero il loro posto ad altri mi piace ricordare Edith Evans, passeggera di prima classe. Lei, single, cedette il suo posto sul pieghevole D alla signora Murray Brown, che aveva figli a casa.

Sotto, Harold Lowe:


La donna non si salvò e il suo corpo non venne mai ritrovato. Fu una delle 4 donne di prima classe che non ce la fecero.

Altri vollero salvarsi, a tutti i costi, alcuni vennero indagati, altri no, ma per tutti quelli identificati restò il marchio infamante di codardo.

La scialuppa 14, in piedi Harold Lowe che sta ammainando la vela:


Bruce Ismay

L’uomo era l’amministratore delegato della White Star. Nonostante i messaggi di pericolo di ghiaccio che si susseguirono per tutto il 15 aprile da altre navi, l’ambizione lo spinse a forzare il Comandante Smith a non ridurre la velocità come avrebbe dovuto. Voleva che la nave arrivasse in anticipo sull’orario previsto per battere la Cunard. Dopo la collisione, molti testimoni sostengono si sia dato da fare per aiutare donne e bambini a salire sulle scialuppe e il loro giudizio non è severo.

Sotto, Bruce Ismay:


Il miliardario trovò posto sull’ultima disponibile, il pieghevole C, quando ancora c’erano a bordo centinaia di persone condannate, pur continuando a sostenere che non c’erano donne nelle vicinanze. Ismay si salvò e sul Carpathia, si rinchiuse in una cabina senza mai uscirne, neppure per mangiare, probabilmente più per vergogna che per rimorso.

L’uomo non venne giudicato colpevole dalla commissione di inchiesta, ma l’etichetta di vigliacco gli restò addosso. Ad Ismay non gli venne perdonato il fatto di essersi salvato, e diede infine le dimissioni da Chairman della White Star.


Sir Cosmo Duff-Gordon e la moglie Lucille

Sir Cosmo era un ricco proprietario terriero e la moglie una stilista. Quando vennero preparate le scialuppe avvicinò il primo ufficiale Murdoch per chiedergli il permesso di salire a bordo della no. 1. Murdoch accettò e sulla scialuppa salirono i due Gordon-Duff e la loro segretaria più altri 7 uomini, 2 passeggeri di prima classe e 5 membri dell’equipaggio.

La scialuppa imbarcò un totale di 12 persone a fronte di una capienza massima di 40.

Sotto, Sir Cosmo Duff:


Murdoch non seguiva le disposizioni del comandante di “prima le donne e i bambini”, quasi tutti gli uomini che si salvarono furono imbarcati da lui.

Sotto, Lucille Duff Gordon:


A bordo della scialuppa Lucille e la segretaria conversando si disperavano per una bella camicia da notte nuova restata sulla nave. Agli uomini dell’equipaggio Gordon-Duff diede un assegno di 5 sterline ciascuno (equivalenti a 600-700 euro, all’incirca la paga di un mese) non è chiaro se per ricompensarli delle perdite o per corromperli ed evitare di ritornare indietro a salvare i naufraghi in mare che gridavano chiedendo aiuto. Lucille si oppose decisamente a tornare indietro, dicendo agli altri occupanti di tacere e spegnere la torcia per non far sì che potessero individuarli e raggiungerli a nuoto.

Con i Duff-Gordon si raggiunse il limite della vergogna.

Del primo ufficiale Murdoch non si seppe più nulla. Finito l’imbarco delle scialuppe alcuni testimoni affermano si sia suicidato sparandosi in testa. Altri sostengono che si sia buttato in mare. Non venne mai ritrovato e non ne venne identificato il corpo.

Sotto, William Murdoch:



William Carter

Carter era un ricco proprietario di miniere. Al momento della collisione svegliò la moglie e i due figli. A suo dire Carter si salvò salendo in extremis sul pieghevole C, dopo aver imbarcato e visti in salvo in mare moglie e figli sulla scialuppa 4.

Quando la famiglia si re-incontrò sul Carpathia le cose parvero diverse. William arrivò prima degli altri membri. Non riconobbe il figlio, sulla testa del quale la moglie aveva messo il suo cappello per farlo sembrare una bambina (altrimenti non l’avrebbero accettato a bordo).

La moglie lo accusò di averli abbandonati e di non averlo più visto.

La donna in seguito chiese il divorzio, che le venne concesso proprio per questa ragione. Vero o falso che fosse, Carter aveva sicuramente raccontato il falso: la scialuppa 4, a causa di un problema, fu abbassata dopo il pieghevole C e arrivò fra le ultime al Carpathia.


Arthur Peuchen

Peuchen era un colonnello dell’esercito canadese. L’ufficiale Lightoller, che non ammetteva uomini oltre i 15 anni a bordo, all’imbarco della 6 chiese se, fra i passeggeri in attesa, ci fosse qualcuno pratico di navigazione per liberare due cime. Subito Peuchen si dichiarò pratico e venne imbarcato anche se, in verità, non lo era affatto. Fu l’unico uomo ammesso a bordo di una scialuppa dall’ufficiale Lightoller. Per fortuna la 6 era la scialuppa di Margaret Brown.

Sotto, Arthur Peuchen:


Il Fuochista Sconosciuto

Mentre i due marconisti stavano freneticamente inviando SOS, un uomo con la tuta dei fuochisti entrò in sala radio, prese il salvagente di Phillips dalla sedia e cercò di scappare. Venne sorpreso e, recuperato il salvagente, preso a pugni e atterrato dai due marconisti.

Ci furono poi molti uomini che si travestirono da donna per ottenere un posto in scialuppa, uno di questi fu Daniel Buckley.


Daniel Buckley

L’uomo aveva solo 21 anni, ed era un passeggero di terza classe. Salì su una scialuppa ma venne tirato fuori a forza per fare posto alle donne. David ci riprovò con in testa uno scialle prestatogli da una passeggera e riuscì a salire sulla 14. Si riscattò però in seguito offrendosi come volontario ad accompagnare Harold Lowe nella ricerca di eventuali superstiti in mare.

Sotto, Daniel Buckley:


E infine bisogna ricordare i tanti “saltatori”, molti dei quali non identificati, mentre invece, merita una menzione William Frauenthal.


William Frauenthal

Egli era un medico e viaggiava in prima classe con la moglie. Dopo averla imbarcata sulla scialuppa 5, a lui venne rifiutato l’imbarco. Mentre la scialuppa veniva abbassata lui saltò, atterrando su una donna e rompendole diverse costole.

Frauenthal e la moglie:


Frauenthal pesava circa 120 chilogrammi.

Il nome Ippocrate per lui evidentemente non aveva alcun significato.


domenica 17 luglio 2022

La Bestia del Gévaudan: il “Mostro Antropofago” più Terrificante della Storia.

Le leggende riguardanti i licantropi, o lupi mannari, hanno caratterizzato buona parte dell’Europa Medioevale, ma le origini della Bestia del Gévaudan affondano le radici in un’epoca successiva, qualche anno prima della Rivoluzione Francese. La creatura, che fino ad oggi non è stata identificata con certezza, iniziò a terrorizzare il popolo di Gévaudan, una provincia del sud della Francia, nel 1764. Tutto iniziò quando una ragazza stava portando al pascolo le mucche e venne attaccata da una creatura “simile a un grosso lupo“, che tentò diverse volte di mangiare la donna, prima di essere allontanata dalle vacche.

La vaccara descrisse l’animale in modo discretamente dettagliato: Aveva orecchie piccole, una testa da cane, un corpo simile a un Lupo e la sua pelliccia era rossastra, ncon una lunga coda…



L’attacco sembrò un episodio a sé stante, ma dopo qualche giorno, il 30 Giugno del 1764, Janne Boulet, una quattordicenne del posto, venne uccisa dalla bestia, a poca distanza dal luogo del primo attacco. Della giovane furono trovati soltanto gli zoccoli e il cappellino. Il corpo era scomparso, interamente divorato dalla bestia. Durante tutta l’Estate gli attacchi continuarono, solitamente rivolti a donne e ragazzi, ma sporadicamente anche a uomini che viaggiavano in solitaria.


Gli abitanti dei villaggi iniziarono a sentirti oppressi, schiacciati dal terrore di diventare il nuovo piatto della Bestia…



La popolazione iniziò ad armarsi e cominciò la classica “caccia al lupo“, e vennero abbattuti decine di animali da parte degli abitanti della zona. Nonostante le uccisioni, gli attacchi non accennarono a diminuire. Decine di persone furono mangiate, spesso decapitate, da un animale che non sembrava aver altro scopo che l’assassinio di esseri umani.


Naturalmente, mano a mano che le morti aumentavano, le voci sulla natura della Bestia iniziarono a raggiungere standard da storia Horror. Chi diceva si trattasse di un licantropo, chi di un lupo enorme, chi ancora di un intero branco di lupi antropofagi. Anche la Chiesa fornì la propria interpretazione, immaginando un flagello divino mandato sulla terra a punire gli abitanti per i propri peccati.



Il Re di Francia, Luigi XV, venne rapidamente a conoscenza degli eventi, e offrì il proprio supporto affinché la Bestia venisse finalmente uccisa. Come contromisura mandò 56 Dragoni, uomini armati sia a cavallo sia a piedi, coadiuvati dai 400 volontari del Clermont, tutti comandati da Jean Boulanger Duhamel, il quale avvistò la Bestia più volte senza riuscire ad ucciderla.

Duhamel ebbe a dire: La Bestia è un ibrido mostruoso: assomiglia ad un Lupo ma è grande quanto un vitello.

Duhamel e il corpo di ricerca arriveranno a organizzare battute di caccia di dimensioni inaudite, e a cercare, con ogni strategemma, di uccidere l’animale che, sino a Marzo del 1765, aveva fatto 33 vittime accertate.

Il capitano tentò di tutto: Organizzò la più grande battuta di caccia della storia con 20.000 partecipanti, disseminò i boschi di cani avvelenati, sperando di uccidere “il mostro”, Travestì i suoi Dragoni da Donne nel tentativo di farli attaccare.

Il Re mise una taglia sulla testa della Bestia: 6000 livre, che sommate a quelle di vescovo e provincia arrivavano a 9400 livre: l’equivalente necessario a comprare 100 Cavalli.

A seguito degli insuccessi dei militari, Luigi XV inviò un nobile, Jean-Charles D’Enneval, che interpretò la caccia in modo molto diverso, decisamente più solitario. D’Enneval e Duhamel avrebbero dovuto collaborare ma, naturalmente, entrarono in aperto conflitto. Da Parigi arrivarono ordini perentori: il Capitano e i suoi Dragoni avevano fallito, dovevano rientrare immediatamente.

La prima azione registrata di D’Enneval fu del 13 Aprile 1765: una battuta di caccia con obiettivo una Lupa che sembrava corrispondere alla descrizione. L’animale venne ucciso, ma senz’altro non era la famosa Bestia mangiauomini.

Il 1° Maggio, il cacciatore e il suo seguito si appostarono nei pressi di Saint Alban, facendo spostare l’animale verso sud. Qui tre fratelli, la famiglia Marlet de la Chaumette, colpirono l’animale per ben due volte ma, incredibilmente, la Bestia non subì danni in punti vitali. Il giorno dopo, una ragazza di 32 anni sarà ritrovata divorata nei pressi di Pépinet de Venteuges.

Anche il Nobile cacciatore D’Enneval aveva fallito nella caccia. Venne sostituito da François Antoine, il Gran portatore di Archibugio del Re, accompagnato dal figlio e da 14 fra i più esperti guardacaccia reali. Gli uomini arriveranno a Clermont Ferrand a metà Giugno, andando ad abitare al castello di Besset.



L’11 Agosto del 1765 Marie Jeanne Valet, perpetua del parroco locale, venne aggredita insieme alla sorella nei pressi di un fiumiciattolo durante l’attraversamento. Grazie all’istinto di sopravvivenza, la donna riuscì a piantare nel petto della Bestia una Baionetta, che era stata consegnata a tutti gli abitanti come arma di difesa. L’animale compì diverse giravolte gridando dal dolore, per poi sparire nel bosco.

L’episodio ispirerà la statua di Philippe Kaeppelin. Fotografia di Szeder László condivisa con licenza Creative Commons


Il 28 Agosto le guardie di Antoine uccisero un lupo di dimensioni ragguardevoli nei boschi di Ténezère, ma nuovamente non si trattò della famosa bestia. Quasi un mese più tardi, il 20 Settembre, venne avvistato un lupo di dimensioni impressionanti, con una lupa ed i cuccioli. Antoine colse l’occasione per porre fine, almeno agli occhi del Re, alla caccia della Bestia del Gévaudan.

I suoi uomini uccisero l’enorme lupo, che venne imbalsamato e portato a corte. La caccia, almeno a livello istituzionale, era terminata, ed Antoine ne guadagnò tutti i meriti, in termini di prestigio ed economici. Fece ritorno a Parigi il 4 Novembre, dopo aver sterminato tutta la famiglia di lupi, in modo da assicurarsi che “il Flagello di Dio” non colpisse più, nemmeno coi suoi figli.

Il Lupo ucciso era alto 78 Centimetri e pesante poco meno di 60 chilogrammi.

L’11 Dicembre dello stesso anno la Bestia tornò a colpire, a Lorcières, uccidendo e mangiando una bambina di 11 anni. Antoine aveva sì ucciso un grosso lupo, ma non era certamente il mostro antropofago che tutti speravano.


La Bestia del Gévaudan continuò durante tutto il 1766 a mietere vittime, sino ad arrivare al Giugno del 1767. Durante questo periodo, quasi due anni, vennero organizzate numerose battute di caccia, ma a morire furono soltanto lupi “innocenti”. Il 19 Giugno di quell’anno Jean-Joseph de Chateauneuf Randon, Marchese del Gévaudan, organizzò una battuta con 12 uomini, e Jean Chastel, uno di loro, si trovò faccia a faccia con la Bestia, riuscendo finalmente ad ucciderla.

L’animale, con ogni probabilità davvero l’antropofago (o uno degli antropofagi) che aveva terrorizzato la zona nei tre anni precedenti, morì sotto i colpi del cacciatore, e gli attacchi terminarono. La bestia si avvicinò a Chastel senza attaccarlo, un particolare che si rivelerà importante per le successive ipotesi. Il colpo usato, vuole la leggenda, era un proiettile d’argento, circostanza che alimenterebbe le ipotesi sul mostro/licantropo.

La Mappa della Zona:


Le dimensioni dell’animale ucciso da Chastel erano considerevoli:

  • Lunghezza del corpo dalla radice della coda alla punta del muso: 99 Centimetri

  • Altezza: 76,8 Centimetri

  • Peso: non specificato

Chastel tentò di sfruttare economicamente l’uccisione, e si recò a Versailles con il cadavere dell’animale. Il Re Luigi XV però lo cacciò via in fretta, sostenendo che la Bestia del Gévaudan fosse stata uccisa 2 anni prima, dal fedele Antoine. Finì così, senza ulteriori battute di caccia né uccisioni, la storia di uno dei più terrificanti animali antropofagi della storia.

Il monumento a Jean Chastel. Fotografia condivisa con licenza Creative Commons


Quante persone furono uccise?

Secondo i registri francesi, le vittime accertate furono 136, ma probabilmente erano molte di più. Fu Luigi XV ad impedire di tenere il conto, e alcuni storici ipotizzano che potrebbero esser state uccise sino a 500 persone. Stime più realiste parlano di circa 200 persone uccise in tre anni.


Che animale era la Bestia?

Le ipotesi formulate da storici e criptozoologi (studiosi di animali nascosti) sono innumerevoli, assolutamente contrastanti fra loro. La teoria storica più comune è quella che la “Bestia” fossero in realtà più Lupi Antropofagi, che uccidevano da soli e si cibavano principalmente di esseri umani. Il naturalista francese Michel Louis propose, nel 2001, una teoria assai diversa, ovvero che si trattasse di un dogue de Bordeaux appartenente proprio a Jean Chastel. Un cane particolarmente grosso, che era diventato per qualche ragione un mangiatore di uomini, e che si sarebbe infine fatto uccidere dal padrone perché riconosciuto come tale. Un’altra teoria, formulata da Pierre Pourcher e François Fabre, vede la “Bestia” come un giovane leone, scappato in qualche modo alla cattività e incapace alla caccia. Altre ipotesi formulate nel corso degli anni parlano di animali ibridi, di una Tigre, di una Pantera e via discorrendo.

Sotto, un Dogue de Bordeaux. Fotografia condivisa con licenza Creative Commons


Le ultime ipotesi, quelle più fantasiose, identificano il mostro con un licantropo, circostanza giustificata dall’utilizzo del proiettile d’Argento e dalle dimensioni considerevoli del Lupo catturato. Quella del licantropo, anche se del tutto priva di concretezza scientifica, è una teoria affascinante, soprattutto a causa anche della inspiegabile antropofagia dell’animale.


sabato 16 luglio 2022

Quel treno troppo veloce che sfondò la stazione.

L'incidente ferroviario di Montparnasse non si risolse in una strage: ci fu un solo morto, ma l'immagine del treno penzolante dalla stazione fu impressionante.



Nel gennaio 1896, i fratelli Lumiere fecero proiettare per la prima volta il loro film “L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”, erroneamente ritenuto il primo della storia del cinema e al centro di una presunta bizzarra bufala: secondo la leggenda, gli spettatori, assistendo all’arrivo di un treno su quello schermo “larger than life”, furono colti da ansia, paura, terrore, legato all'impressione per cui sembrava che, in prospettiva, il treno penetrasse nella sala. Forse questo mito è legato al ricordo recente di un fatto vero: un incidente molto spettacolare occorso a Parigi nell’ottobre 1895, passato alla storia appunto come l’incidente ferroviario di Montparnasse.


L’incidente di Montparnasse.

Un vero salto nel tempo, metaforicamente e letteralmente. È il 22 ottobre 1895 e alle 8.45 del mattino il treno espresso 56 parte da Granville, come riporta History Daily: il suo arrivo è previsto alle 15.55 alla stazione parigina di Montparnasse, nel cosiddetto quartiere degli artisti. È un bel viaggio, di 350 chilometri, dato che Granville si trova in Normandia.

Ma durante il percorso, nonostante il macchinista sia il collaudato Guillaume Marie Pellerin, accade che il treno inizia ad accumulare ritardi, l’ultimo dei quali, di 9 minuti, è quello della stazione di Versailles Chantiers, distante circa 23 chilometri dal punto di arrivo. Così il macchinista inizia a “correre”, ad accelerare per quanto la tecnologia del tempo glielo consenta, fino ad arrivare alla velocità di 65 chilometri all’ora.

E nei pressi della stazione di Montparnasse accade qualcosa di inaspettato: tutti i freni non funzionano. Prima il freno Westinhouse, una tecnologia recente al tempo, azionato da Pellerin, poi il freno a mano utilizzato dal capotreno Albert Mariette e infine il freno a controvapore. Così il treno entra in stazione alle 16 alla velocità di 40 chilometri all’ora impattando con gli arredi della stazione - orologi compresi - con la barriera dei respingenti a fine binario e infine con la balaustra della facciata. E ricadendo sulla strada.



Nonostante il rocambolesco arrivo del treno, i feriti furono solo 7: due passeggeri, due impiegati delle ferrovie, un vigile del fuoco, Pellerin e il suo aiuto Victor Garnier.

Ma ci fu un morto. Si trattò di Marie-Augustine Aiguillard, moglie di un edicolante che in quel momento sostituiva il marito, andato a prendere un nuovo carico di giornali: mentre era in edicola a sferruzzare la donna fu infatti colpita da un pezzo della balaustra della stazione.

I passeggeri, in totale 131, si salvarono tutti perché i vagoni che li trasportavano erano posti dopo la locomotiva, un vagone postale e due vagoni bagagli. E oltre a questo i compartimenti dei passeggeri furono sganciati immediatamente nel momento dell’impatto.


Le cause e le conseguenze.

Le cause dell’incidente di Montparnasse furono un misto di malfunzionamento tecnico ed errore umano: il fatto che il freno Westinghouse non abbia funzionato ha infatti innescato una reazione a catena. Pellerin e Garnier cercarono di ridurre la velocità prima attraverso il freno a mano utilizzato da Mariette e poi con il freno a controvapore, il cui effetto non andò a buon fine per una ragione di spazio.

Il malfunzionamento tecnico fu riscontrato anche dalla giustizia, che comminò a Pellerin e Garnier 2 mesi di carcere e una multa di 50 franchi. Anche per Mariette ci fu una multa, di 25 franchi. La Compagnie des chemins de fer de l'Ouest pagò per il funerale di Aiguillard e corrispose ai figli una borsa di studio.

La locomotiva rimase sospesa tra la stazione e la strada per 2 giorni e venne rimossa il 25 ottobre. Ci volle un carro con 14 cavalli e un argano da 250 tonnellate per trasportarla in un’officina e il 28 ottobre la stazione di Montparnasse riprese a funzionare regolarmente. Così come è tornata sui binari la locomotiva, che nell’incidente non aveva riportato grossi danni e quindi fu prontamente riparata.


venerdì 15 luglio 2022

Le creature marine più misteriose della storia.

Abbiamo mappato i regni acquatici del nostro pianeta in modo da lasciare ampio spazio a possibili sorprese. E nel corso del tempo in molti, tra questi anche molti scienzia ti,sono andati a cercarle.



Si diceva che il famigerato kraken minacciasse le navi nei mari settentrionali tra la Norvegia e la Groenlandia. Viene comunemente raffigurato come un calamaro o una piovra ma è probabile che queste rappresentazioni siano state influenzate da avvistamenti parziali di balene e squali.

Mostrando un capodoglio, un drago di komodo o un diavolo nero degli abissi a qualcuno per la prima volta si può suscitare la stessa reazione della vista di un personaggio di un film di fantascienza o di un essere mitologico. E quando si tratta di demistificare le espressioni più ostili del nostro pianeta, anche gli scienziati ritengono che siano ancora molte le forme di vita da scoprire.

Un aspetto sembra, tuttavia, invariabile: parlando di enormi creature sconosciute alla scienza, pare che il luogo in cui è maggiormente probabile trovarle sia nelle profondità dell’oceano. Gran parte degli angoli e delle fessure dei nostri oceani sono tuttora inesplorati e, dato che ogni esplorazione delle profondità (luoghi peraltro difficilmente raggiungibili) porta con sé la scoperta di nuove specie, i nostri mari appaiono territori fertili per nuove rivelazioni.


La Carta marina et descriptio septentrionalium terrarum (le convenzioni cartografiche del tempo prevedevano l’uso delle denominazioni in latino) è stata la prima cartina dettagliata della Scandinavia, stampata nel 1539 e creata dal cartografo svedese Olaus Magnus. Rivela la convinzione del tempo per cui ogni animale terrestre avesse un corrispondente marino e che terribili mostri fossero in agguato tra i flutti.

Il mistero che circonda le profondità, abbinato all’immaginazione e alle paure dei navigatori, hanno creato un nutrito cast di creature sottomarine che per secoli hanno terrorizzato le acque della storia.

Alcune di queste leggende sono così intriganti e storicamente tenaci da portare la scienza ad analizzarle a lungo e con attenzione. Alcune possono derivare dall’esagerazione di caratteristiche di animali realmente esistenti mentre altre volte possono essere vere sorprese della natura. Ecco alcuni dei più famosi mostri marini della storia e i loro (eventuali) equivalenti reali.


Cefalopodi giganti.

Per chi solcava i gelidi mari del nord nel Medioevo, il kraken era tutt’altro che una creatura di fantasia. Nata nel mondo della mitologia scandinava, questa creatura – il cui nome deriva dal termine della lingua norrena per “piovra” – dotata di tentacoli sta in agguato nell’oceano tra la Norvegia e la Groenlandia ed emerge per cibarsi degli incauti naviganti che si avventurano nel suo territorio.

La leggenda del kraken era ricca di dettagli: si diceva che si facesse buona pesca nella sua zona perché i pesci erano attratti dai suoi rigurgiti. L’animale in sé (si pensava ce ne fossero almeno due) era immenso, delle dimensioni di un’isola, e confondeva i marinai apparendo e scomparendo tra la nebbia. Le descrizioni del kraken sono una combinazione di creature e dimensioni fantasiose che ricordano le caratteristiche del calamaro gigante, dello squalo elefante, del capodoglio e del granchio.

Un disegno del 1801 di Pierre Denys de Montfort raffigura un’enorme piovra che si diceva avesse attaccato un gruppo di naviganti al largo dell’Angola. Anche per i più grandi cefalopodi queste proporzioni risultano esagerate: i tentacoli del polpo gigante del Pacifico raggiungono al massimo i 4 metri circa di lunghezza.

La sua esistenza non era messa in discussione tra i marinai e anche i naturalisti l’hanno seriamente presa in considerazione: il kraken è menzionato nella prima versione del Systema Naturae – nella categoria Microcosmus marinus – di Carlo Linneo e nella storia naturale norvegese del 1752 in cui l’autore Erik Pontoppidan descrive la creatura come di forma ‘stondata, piatta e piena di braccia o diramazioni’; nello stesso volume vengono citati anche sirene e serpenti marini a conferma del fatto che la conoscenza dei mari a quel tempo era solo abbozzata.

Una mancanza perdonabile: prima dell’epoca dei sommergibili e delle attrezzature da immersione la maggior parte delle idee riguardanti i grandi animali marini si basavano su rapidi avvistamenti in mare o su enormi carcasse rigonfie portate a riva dalla corrente quindi è comprensibile che le prime esplorazioni del mare lasciassero molto spazio alla fantasia. Nelle cartine dell’epoca sono raffigurate acque brulicanti di mostri di ogni tipo che minacciano le navi e i naviganti, una visione che perdurò per molti anni.

Ancora nel 1809, il botanico George Shaw parlava con sobrietà del kraken nelle sue lezioni di zoologia presso la Royal Institution citando parenti europei di questa ‘gigantesca’ specie di seppia (probabilmente lo confuse con un calamaro) nell’Oceano Indiano che probabilmente avevano dato vita alla leggenda per cui ‘Un moderno naturalista sceglie di distinguere questa terribile specie denominandola Seppia gigante e sembra ampiamente disposto a credere a ciò che è stato riportato come effetto delle sue devastazioni’. Continua descrivendo un allora recente attacco a una barca nei ‘mari dell’Africa’ in cui tre marinai sarebbero stati catturati e uccisi dal ‘mostro’. Un tentacolo reciso durante la lotta si dice fosse dello spessore ‘dell’albero di mezzana di una nave e le ventose delle dimensioni di un coperchio’.

Ridimensionando le catture di marinai e i termini di paragone per le dimensioni, le descrizioni successive hanno progressivamente smorzato la rappresentazione sensazionalistica dell’animale fino al punto di renderlo riconoscibile in creature che sappiamo esistere, anche se rimangono oscure.


Questa inquietante immagine dell’artista giapponese del periodo Edo Utagawa Kuniyoshi raffigura un umibozu che emerge dalle acque e incontra 'il marinaio Tokuso'. Esistono svariate rappresentazioni dell’umibozu ma la scura testa stondata e i grandi occhi sono caratteristiche ricorrenti. Tradizionalmente l’umibozu compare quando il mare è calmo e preannuncia tempesta e per questo si ipotizza che la sua leggenda sia legata all’apparizione di cupe nuvole temporalesche o altri fenomeni atmosferici.

Il calamaro gigante, ad esempio – come il suo omologo meridionale, il calamaro colossale, più corto ma più massiccio – mantiene un’aura di mistero essendo stato avvistato vivo solo pochissime volte. Quello che sappiamo deriva dalle informazioni estrapolate dall’analisi di spaventose specie correlate come il calamaro di Humboldt, dalle carcasse rinvenute e dalle cicatrici osservate ad esempio sugli squali e i capodogli che si scontrano con loro negli abissi.

Dotati di ventose dentate, un terribile becco ed enormi occhi, questi invertebrati assomigliano a molte delle descrizioni del kraken. Le proporzioni risultano molto più modeste, tuttavia: il calamaro più grande finora misurato era lungo 13 metri anche se alcuni sostengono che la specie può raggiungere i 27 metri o anche oltre. Rimangono comunque tutte congetture, ovvero, come si addice del resto a un vero mostro marino, non sappiamo veramente cosa potrebbe nascondersi negli abissi.


Manifestazioni sinistre.

Tra i più inquietanti abitanti leggendari del mare c’è l’umibozu giapponese: un essere oscuro che compare nel mare di notte spesso quando le acque diventano agitate. Ha una testa tondeggiante come quella di un monaco buddista da cui il nome che significa ‘sacerdote del mare’; l’umibozu è ampiamente citato nel folklore giapponese a partire dal XVII secolo anche se le sue origini sono incerte.

Secondo la tradizione, l’apparizione dell’umibozu precede una tempesta e la sua leggenda spesso si confonde con quella dei funayurei – le anime dei marinai morti in mare – che presentandosi chiedono un mestolo con il quale poi riempiono di acqua la barca per affondarla. Tra le spiegazioni del fenomeno ci sono le ondate del mare in tempesta, minacciose nuvole mammatus o temporalesche e addirittura miraggi.


Squali giganti

Gli “squali mostro” un tempo erano creature assolutamente reali e forse per questo alcuni continuano a credere alla loro esistenza. Ce ne sono effettivamente di esemplari inquietanti ma probabilmente non il tipo di creature che qualcuno si aspetta. Lo sapremmo, ad esempio, se il megalodonte, lo squalo preistorico di 18 metri con i denti delle dimensioni di piatti da antipasto, fosse ancora in azione dopo 4 milioni di anni dalla sua ultima apparizione nei reperti fossili (il megalodonte è certamente estinto e la colpa potrebbe essere dei grandi squali bianchi).

Segni di morsi sulle carcasse portate a riva e resti sul fondale marino dei grandi denti (a ciclo continuo di crescita e caduta) dimostrerebbero con certezza la presenza nei nostri mari di questo vorace predatore da acque temperate. Tuttavia le acque più fredde e profonde, che ospitano creature più adattabili, potrebbero riservare non poche sorprese.


Uno squalo bocca grande (raramente osservato dal vivo) al largo della costa della California. Pur essendo la specie più piccola tra gli squali filtratori, lo squalo bocca grande è tuttavia un pesce molto grande che raggiunge i cinque metri di lunghezza e, come dice il nome stesso, è dotato di enormi mandibole con decine di file di piccoli denti.

Ne è la prova ad esempio lo squalo bocca grande, un imponente filtratore lungo 5 metri con 50 file di piccoli denti che vive nelle acque tropicali trovato la prima volta impigliato nei cavi di un’imbarcazione di ricerca al largo delle Hawaii nel 1976. Conosciuto solo sulla base degli esemplari rimasti catturati nelle reti, rinvenuti morti e gonfi di acqua o molto raramente osservati in vita, questo curioso lento nuotatore è uno degli strani animali che, nascosti negli abissi, sfuggono alla nostra vista.


Antichi pesci.

Può darsi che plesiosauri e squali giganti non esistano più ma, per avere la riprova che i nostri mari potrebbero ancora ospitare creature considerate estinte da tempo, basta guardare il celacanto. Si pensava che questo strano pesce di quasi 2 metri si fosse estinto insieme ai dinosauri ma nel 1938 ne fu trovato un esemplare vivo al largo della costa del Sudafrica.


Rappresentazione di un celacanto, una specie che suscitò molto interesse quando fu riscoperta nel 1938. Si tratta di un grande pesce predatore dotato di cranio diviso in due parti che gli permette di ingerire grandi prede e che dà alla luce piccoli vivi.

Dotato di una serie di caratteristiche primitive – come cranio diviso in due parti, spina dorsale cava, 8 pinne lobate carnose che si muovono come le zampe degli animali terrestri e occhi molto sensibili alla luce e quindi adatti alla vita nell’oscurità – nel 1998 per il celacanto è stata definita una seconda specie, trovata in Indonesia, che alimenta questa fase di rinascita di una specie che per lungo tempo è stata ritenuta estinta.


Sirene.

A volte, quando una leggenda è ben radicata nella mente dell’osservatore, può bastare una vaga somiglianza per collegarla alla realtà. Questo potrebbe essere stato il caso di Cristoforo Colombo quando, avvicinandosi alla costa della Repubblica Dominicana nel 1493, vide le sirene. “Non sono così belle come si dice”, scrisse sul giornale di bordo, “anzi i loro volti hanno tratti piuttosto mascolini”.


“Tratti mascolini”: un lamantino dell’Oceano Indiano occidentale si offre alla telecamera. Con i suoi lenti movimenti, il lamantino spesso viene inavvertitamente ferito dall’uomo ed è esposto a notevoli minacce.

È quasi certo che le creature che stava descrivendo fossero in realtà lamantini che, tratti del viso a parte, forse differiscono dalle leggendarie sirene anche in altre caratteristiche: sono animali che raggiungono una lunghezza di oltre 3,5 metri e con il loro abbondante strato di grasso arrivano a un peso di 500 kg; presentano un grosso muso con grandi narici che si chiudono sott’acqua, pinne laterali e pinna caudale tondeggiante. Ciononostante l’associazione prese piede tanto che il nome della famiglia del lamantino e del suo cugino del Pacifico, il dugongo, ha assunto il soprannome delle loro controparti mitologiche: sirenii. La parola dugongo in malese significa ‘signora del mare’.


Mostri lacustri

Pochi laghi al mondo hanno una tradizione di mostri acquatici paragonabile a quella di Loch Ness. Questo lago di 37 km di lunghezza, collegato al mare attraverso un sistema di canali che presenta una capacità sufficiente a contenere tutti i laghi e bacini idrici di Inghilterra e Galles, è stato esaminato dai media locali e non in merito alla misteriosa creatura che si dice ospiti da oltre un secolo. I sospetti risalgono ai tempi in cui il missionario cristiano San Columba si dice abbia avuto a che fare con una “bestia acquatica” nel VI secolo ma la saga moderna è iniziata il 2 maggio 1933 quando in un articolo dell’Inverness Courier pubblicò il resoconto di un testimone oculare su un enorme animale che emergeva e si rituffava nelle acque del lago.


Le dimensioni del lago di Loch Ness – quasi 40 km di lunghezza, picchi di profondità di oltre 200 metri, ne rendono difficile l’esplorazione in tutti i suoi punti. È ancora viva la tradizione che racconta di un mostro che ne abiterebbe i fondali; l’ultima immagine a riportare l’attenzione sul tema è stata trovata su Apple maps.

Una, ora famigerata, fotografia che mostrava una creatura dal lungo collo simile a un plesiosauro che emergeva dalle acque seguì l’anno successivo causando una tempesta mediatica. Da allora innumerevoli immagini sensazionalistiche (e di dubbia autenticità) si sono aggiunte ad alimentare le credenze sulla creatura ormai nota con il nome di ‘Nessie’.

La maggior parte degli avvistamenti paragonano la creatura aserpente o a una lucertola d’acqua simile a un plesiosauro, forse un essere dei tempi dei dinosauri che in qualche modo è riuscito a sopravvivere e a prosperare nelle acque ricche di pesci del lago. È un’idea allettante considerando che Loch Ness, che in alcuni punti raggiunge profondità di 220 metri, è notevolmente più profondo della maggior parte del Mare del Nord. Spiegazioni più prosaiche prevedono che potrebbe trattarsi di un grande squalo di acqua dolce, di una seppia particolarmente adattiva, di un tipo di anguilla o addirittura di lontra.


I fotografi e gli scienziati di National Geographic in immersione nelle acque di Loch Ness nel 1977 per esaminare il lago scozzese e i suoi abitanti criptozoologici.

Per un essere che rappresenta la definizione di criptozoologia – accompagnata da una serie di innumerevoli bufale accumulate nella storia, inclusa la foto che sembra stare all’origine di tutto – è stata dedicata una grande attenzione scientifica al determinare la sua esistenza. Alcuni esempi sono gli studi con apparecchi sonar eseguiti dall’Università di Birmingham, un altro studio sponsorizzato dalla BBC e un profilo del DNA del lago eseguito da un team di tre università europee.

Nel 1977 anche National Geographic ha partecipato alle ricerche incaricando il fotografo subacqueo David Doubilet e l’explorer Robert Ballard di condurre uno studio fotografico delle profondità. Ballard avrebbe trovato il Titanic otto anni dopo ma nessuna di queste spedizioni trovò alcuna prova certa sulla presenza di un ‘mostro’ dentro Loch Ness. Tuttavia, nonostante tante teorie confutate, è difficile anche provare la non esistenza della creatura – e la lucrosa tradizione locale su Loch Ness non sembra volersi inabissare nella memoria, per ora.


 
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