martedì 15 aprile 2025

Il Diluvio Universale: mito, memoria collettiva o evento dimenticato della storia?

L’acqua, fonte di vita, può trasformarsi in strumento di distruzione assoluta. Così narra la Genesi, nel più celebre dei racconti biblici: “Al seicentesimo anno della vita di Noè, il diciassette del secondo mese, in quel giorno tutte le sorgenti del grande abisso si ruppero, e le cateratte del cielo si aprirono. La pioggia cadde sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti”. È l’inizio del Diluvio Universale, mito fondante per la cultura giudaico-cristiana, ma anche enigma storiografico che, da secoli, affascina archeologi, storici e scienziati di tutto il mondo.

Ciò che rende il diluvio più di una semplice allegoria morale è la sua sorprendente ricorrenza. La narrazione di una catastrofe idrica che spazza via l’umanità, risparmiando un solo uomo giusto e la sua famiglia, emerge – in forme diverse – in centinaia di culture, dai Sumeri agli Aztechi, dai Veda indiani alle saghe nordiche. Un’indagine della Smithsonian Institution ha catalogato oltre 200 tradizioni mitologiche, provenienti da ogni continente, che raccontano una grande alluvione primordiale. Una convergenza così ampia che ha portato molti studiosi a chiedersi: può la leggenda del Diluvio essere il ricordo tramandato di un evento reale?

In Mesopotamia, tra i fiumi Tigri ed Eufrate, il più antico racconto di un diluvio appare nell’“Epopea di Gilgamesh”, un poema assiro-babilonese risalente al XVIII secolo a.C. L’eroe Utnapishtim – il Noè sumero – riceve dagli dèi l’ordine di costruire una barca e salvare “il seme della vita”. Il parallelo con la versione ebraica è tanto evidente da far supporre una derivazione diretta o una fonte comune ancora più antica.

Simili racconti si trovano nella mitologia greca con Deucalione e Pirra, nei testi indiani del Mahabharata e dei Purana, nel mito persiano di Yima, e persino nelle leggende cinesi con l’enigmatico Fa Li. In Nord America, i Tuscarora, i Sioux, gli Hopi e numerose tribù native raccontano tutte storie di una grande inondazione. Nei miti degli Incas, dei Maya e dei Toltechi, l’acqua distrugge un’umanità corrotta per volontà degli dèi. Presso gli aborigeni australiani, il diluvio è un elemento ciclico, parte del tempo del sogno. È difficile ignorare l’universalità di questa narrazione.

Gli scienziati hanno cercato spiegazioni razionali a una leggenda così diffusa. Alcune teorie fanno risalire il “vero” diluvio a una catastrofe geologica verificatasi tra il 10.000 e l’8.000 a.C., alla fine dell’ultima glaciazione. Secondo l’oceanografo William Ryan della Columbia University, un’ipotesi affascinante riguarda il Mar Nero. Originariamente un lago d’acqua dolce, si sarebbe trasformato in mare salato a causa di un improvviso innalzamento del Mediterraneo, che ruppe la soglia del Bosforo, sommergendo rapidamente le coste abitate da popolazioni neolitiche. Un evento di tale portata avrebbe potuto ispirare generazioni di racconti mitologici.

Altre interpretazioni, meno ortodosse, ipotizzano impatti asteroidali, destabilizzazioni planetarie o addirittura il sprofondamento del mitico continente di Atlantide. Teorie che restano ai margini del consenso scientifico, ma che testimoniano quanto l’idea di un evento globale sia ancora viva nell’immaginario collettivo.

E poi c’è l’Arca. Secondo la Genesi, il vascello costruito da Noè si sarebbe arenato sulle pendici del monte Ararat, nell’attuale Turchia. È qui, a oltre 5.000 metri di altitudine, tra le nevi perenni, che si concentra da quasi due secoli una febbrile attività di esplorazione e ricerca. La prima ascensione documentata risale al 1829, con il medico tedesco Friedrich Parrot. Da allora, si sono succedute spedizioni da tutta Europa, senza risultati verificabili. Nel 1876 l’archeologo e parlamentare britannico James Bryce tornò a Londra con un pezzo di legno che, a suo dire, proveniva dall’Arca ed era stato trovato a oltre 4.000 metri d’altitudine.

Nel XX secolo, gli avvistamenti si moltiplicano. Il più celebre è quello del pilota russo Vladimir Roskovitsky, che nel 1916, sorvolando il monte per conto dell’esercito zarista, avrebbe visto chiaramente un grande oggetto ligneo incastrato nel ghiaccio. Una spedizione militare venne organizzata su ordine degli Zar, ma la rivoluzione bolscevica fece calare il silenzio su ogni successivo sviluppo. Il racconto fu in seguito ripreso e confermato da un ufficiale zarista in esilio, Alexander Koor.

In tempi più recenti, presunti avvistamenti sono stati segnalati da piloti russi, satelliti americani e spedizioni private. Una delle più discusse è quella del 1989, quando due ricercatori statunitensi sostennero di aver trovato resti lignei fossilizzati su una delle pendici dell’Ararat. Ma nessuna prova concreta è mai stata accettata dalla comunità scientifica internazionale.

Oggi, il monte Ararat continua a custodire i suoi segreti, inaccessibile per gran parte dell’anno e in una regione dalla difficile situazione geopolitica. Il relitto dell’Arca di Noè – se mai esistito – giace forse sepolto sotto i ghiacci, in attesa di essere (ri)scoperto. O forse non è mai esistito, e la sua ricerca è solo una moderna versione della caccia al Graal: una speranza, un simbolo, una metafora.

Eppure, che si tratti di memoria storica o archetipo universale, il mito del diluvio ci parla ancora. Narra di un’umanità che sbaglia e si redime, della fragilità della civiltà davanti alla furia della natura, ma anche della possibilità di un nuovo inizio. E mentre il cambiamento climatico ridisegna oggi le mappe delle acque e dei deserti del pianeta, l’antico monito contenuto nel racconto di Noè torna con forza drammatica: non possiamo sfuggire alle leggi della natura, ma possiamo ascoltarne i segnali. Prima che sia troppo tardi.

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