Nel 1963, un anonimo cittadino turco, intento a ristrutturare la propria abitazione, abbatteva una parete nella cantina di casa. Non poteva immaginare che quel gesto quotidiano lo avrebbe reso protagonista di una delle più affascinanti scoperte archeologiche del secolo: l’accesso a una città sotterranea tanto vasta quanto enigmatica, nascosta per millenni nelle viscere della terra. Il suo nome è Derinkuyu. Ma chi l’ha costruita davvero? E perché?
A prima vista, Derinkuyu sembra appartenere al repertorio delle grandi meraviglie dell’ingegno umano antico. Articolata su tredici piani a oltre 85 metri di profondità, comprende alloggi, cucine, stalle, scuole, cantine, magazzini e persino un sistema idrico e di ventilazione straordinariamente efficiente, capace di sostenere fino a 20.000 persone. Una città completa, invisibile agli occhi del mondo per secoli.
Secondo gli archeologi tradizionali, la sua origine risalirebbe all’VIII secolo a.C., quando i Frigi, un popolo dell’Età del Ferro legato ai Troiani, la avrebbero realizzata come rifugio temporaneo contro invasioni e conflitti. Altri ne attribuiscono la paternità agli Ittiti, protagonisti delle cronache bibliche, attivi nella regione centinaia di anni prima. In entrambi i casi, l’opera risulterebbe comunque un prodigio tecnico, difficilmente replicabile persino con strumenti odierni, vista la delicatezza del tufo vulcanico della Cappadocia.
Tuttavia, esiste una corrente di pensiero che si spinge oltre, ponendo Derinkuyu in un contesto più antico, più oscuro e, secondo alcuni, addirittura extraterrestre. È la teoria degli "Antichi Astronauti", che intreccia archeologia alternativa, mitologia e letture non convenzionali dei testi sacri antichi.
Uno dei riferimenti più citati è il secondo capitolo dell’Avesta, il libro sacro dello Zoroastrismo, la religione dell’antico impero persiano. In esso si narra di come il dio creatore Ahura Mazdā avvisò il profeta Yima di un imminente disastro globale — non un diluvio, ma un "malvagio inverno", un’era glaciale — e gli ordinò di costruire un rifugio sotterraneo per salvare l’umanità, gli animali e le piante. Quel rifugio, secondo alcuni interpreti, sarebbe proprio Derinkuyu.
L’impossibilità di datare il tufo mediante il radiocarbonio lascia spazio a ipotesi audaci. Se la città risale davvero a 10.000 o persino 18.000 anni fa, come suggerisce qualcuno, sarebbe non solo la più antica testimonianza di architettura sotterranea mai ritrovata, ma un manufatto che implicherebbe conoscenze ingegneristiche avanzatissime per l’epoca. E allora — si chiedono i teorici — da dove veniva tale conoscenza?
L’identificazione di Ahura Mazdā con una possibile entità non terrestre deriva da una lettura metaforica (o letterale, a seconda del punto di vista) dei "carri celesti" descritti nei testi zoroastriani. Lo stesso concetto si ritrova altrove: le Vimana nei Veda indiani, il carro di fuoco che rapisce il profeta Elia nella Bibbia, e molti altri racconti di veicoli celesti nelle mitologie globali.
A rafforzare la tesi del rifugio da minacce aeree, vi è l’osservazione dell’ingegnosità delle porte di Derinkuyu: massi circolari da 500 kg montati su cardini di pietra, manovrabili dall’interno da una sola persona e impossibili da forzare dall’esterno. Un sistema di difesa progettato più per proteggere da una minaccia sconosciuta che per accogliere un assedio convenzionale.
Non mancano, infine, ipotesi più inquietanti. Alcuni ricercatori alternativi suggeriscono che la città sotterranea non sia stata costruita per sfuggire a un disastro naturale, ma per sopravvivere a una guerra. Non una guerra qualunque, bensì uno scontro tra potenze aliene. Secondo questa visione, le battaglie aeree tra Ahura Mazdā e il suo nemico Angra Mainyu — divinità del caos — non sarebbero solo allegorie morali, ma la descrizione di reali combattimenti fra fazioni extraterrestri per il controllo della Terra.
Naturalmente, queste teorie restano ai margini del consenso scientifico. Gli storici e gli archeologi professionisti ricordano come ogni affermazione debba poggiare su prove concrete, replicabili, contestualizzate. Nonostante ciò, il fascino esercitato da Derinkuyu sul pubblico e su certi settori della comunità accademica alternativa resta immutato, alimentato dal mistero di un'opera così sofisticata e antica, la cui funzione originaria sfugge ancora a ogni certezza.
E così, sotto le colline ondeggianti della Cappadocia, Derinkuyu continua a sussurrare domande che la storia ufficiale non ha ancora saputo — o voluto — affrontare pienamente. È stato davvero l’uomo, con scalpelli e torce, a scolpire questo prodigio? O, come molti sospettano, c’è ancora qualcosa che non sappiamo, e che giace, silenzioso, sotto i nostri piedi?
Una cosa è certa: se anche la verità fosse ben più terrestre delle ipotesi aliene, la sola esistenza di Derinkuyu basta a ricordarci quanto sia profonda, nel tempo e nello spazio, l’intelligenza di cui siamo eredi. E forse, quante altre città silenziose ci aspettano nel buio per raccontare la loro versione della storia.
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