lunedì 6 dicembre 2021

Aspidochelone

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La balena-isola, nota anche come zaratan o aspidochelone (composto dalle parole greche aspis "serpente" o "scudo", e chelone "tartaruga"), è un leggendario mostro marino, con la forma di un'enorme balena o tartaruga. È caratterizzato da dimensioni tali che i marinai che navigano nelle sue vicinanze possono scambiarlo per un'isola, e sbarcarvi sopra; inoltre, se rimane a lungo a fior d'acqua, il suo dorso può coprirsi di vegetazione, arrivando a sviluppare nel corso del tempo persino una foresta.

Origini

Il mito di un mostro marino grande come un'isola, e che poteva essere scambiato per tale dai naviganti, risale almeno alla mitologia norrena (la Saga di Örvar-Odds e il Konungs skuggsjá) e accomuna Zaratan ad altri mostri marini celebri, in particolare il Kraken. Il Kraken tuttavia non viene in genere rappresentato come un pesce, ma come una piovra o un granchio.
Plinio il Vecchio nella Historia naturalis racconta la storia di un pesce gigante, che chiama pristis, sul quale sbarcano dei marinai, che si accorgono della vera natura dell'animale quando esso si immerge. L'allegoria della balena-isola si ritrova anche in sant'Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae.
Una balena-isola compare nei racconti di Sindbad il marinaio, durante il suo primo viaggio. All'incirca alla stessa epoca, ovvero al IX secolo, risale il primo riferimento a questo mostro in un'opera non di fantasia. Al-Jahiz, zoologo arabo, annotava nel proprio Libro degli animali:
«Per quanto concerne lo Zaratan, non ho mai incontrato nessuno che l'abbia visto con i propri occhi. Ci sono marinai che asseriscono di essersi spinti verso certe isole, vedendo valli boscose e spaccature nella roccia, e di essere sbarcati per accendere un gran fuoco; e che quando il calore delle fiamme ebbe raggiunto la spina dorsale dello Zaratan, questo abbia iniziato a immergersi nell'acqua con loro sopra di lui, e con tutte le piante che vi crescevano, fino a che solo quelli capaci di nuotare furono in grado di salvarsi. Questo supera persino la più coraggiosa e fantasiosa delle finzioni.»
Il racconto di Al-Jahziz si ritrova in numerose altre fonti successive. Un episodio praticamente identico viene raccontato dal cosmografo persiano Zakariyya al-Qazwini nel XIII secolo nella sua opera Le meraviglie delle creazione; in questo caso, tuttavia, il mostro è indubbiamente una tartaruga.
L'episodio entrò anche a far parte del mito irlandese di San Brendano, narrato nella Navigatio sancti Brendani. Ludovico Ariosto riutilizzò l'idea nell'Orlando furioso. Numerose altre fonti citano episodi di questo tipo; per esempio, la Storia dei popoli settentrionali (Historia de gentibus septentrionalibus) di Olao Magno (1555), Il Fisiologo, il Bestiario d'amore e il Baldus di Teofilo Folengo (libri XVIII-XX).
Attorno alla figura di Zaratan come balena gigantesca si svilupparono alcuni dei temi che Herman Melville avrebbe in seguito ripreso nel suo Moby Dick. Più recente è la menzione di Zaratan-tartaruga da parte di Peter Prescott, nel saggio Incontri con la cultura americana. Anche Jorge Luis Borges ha incluso lo Zaratan nel suo Manuale di zoologia fantastica.

Il mito nella cultura di massa

Questo tipo di creatura si ritrova ad esempio nel film di Terry Gilliam Le avventure del barone di Munchausen, dove è rappresentato come un titanico mostro simile a uno scorfano e dotato di sfiatatoio come una balena; prima di venire ingoiati, il Barone e i suoi compagni lo scambiano per un'isola vulcanica. Creatura simile appare anche in Sinbad - La leggenda dei sette mari della DreamWorks, dove l'isola su cui approdano Sinbad e il suo equipaggio non è altro che una sorta di pesce abissale simile al pesce lanterna.
Una variante del tema tradizionale del mostro-isola si trova nel film di fantascienza Guerre stellari - L'Impero colpisce ancora, in cui un'astronave (il Millennium Falcon) si insinua ed infine atterra in un tunnel di un asteroide, che risulta invece essere l'apparato digerente di un gigantesco mostro spaziale.




domenica 5 dicembre 2021

Yowie

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Lo yowie è una creatura leggendaria australiana, della cui esistenza non esistono prove, dalle sembianze umane ricoperto di pelo simile ad una grossa scimmia. Alcuni australiani che vivono vicino al deserto dicono di sentire spesso dei versi disumani, che attribuiscono allo yowie. Ci sono casi di attacchi da parte di queste scimmie nei confronti di alcuni animali domestici (cani e gatti). Gli aborigeni raccontano di una leggenda dove gli uomini combatterono contro i "Giganti pelosi".
Un'impronta rinvenuta nel 1972 ha mostrato un piede con sole quattro dita, inoltre dai racconti dei molti testimoni si è riscontrato che a differenza di yeti e bigfoot avrebbe un'altezza decisamente più contenuta, intorno a 1,80 metri. Sarebbe comunque dotato di una struttura robusta e lunghe dita prensili. Negli anni '70 molte persone affermano l'avvistamento.

sabato 4 dicembre 2021

Teschio di cristallo

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Un teschio di cristallo è una rappresentazione di un teschio umano ricavata da blocchi di cristallo di quarzo trasparente.
Alcuni di questi manufatti furono dichiarati reperti archeologici mesoamericani precolombiani dai loro pretesi scopritori. Nessuno degli esemplari resi disponibili per studi scientifici è stato tuttavia autenticato come di origine precolombiana. I risultati di questi studi dimostrano che erano stati realizzati alla metà dell'Ottocento e in periodi successivi, quasi certamente in Europa. Malgrado varie opere di letteratura popolare lascino intendere il contrario, le leggende sui teschi di cristallo non sono presenti nelle mitologie dei popoli mesoamericani o di altri nativi americani.
Da alcuni appartenenti del movimento New Age sono stati attribuiti ai teschi fenomeni paranormali, come anche in varie opere di fantasia; tra queste rappresentazioni, quella del film del 2008 Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. I teschi di cristallo sono apparsi in serie televisive di fantascienza, romanzi, fumetti, e videogiochi. Nuovi teschi ricavati dal cristallo vengono prodotti e venduti regolarmente.

Storia

I primi teschi di cristallo compaiono sulla scena nell'Ottocento. Il British Museum ne possiede uno dal 1897. Anche la Smithsonian Institution ha un teschio, donato ad essa nel 1992. Nessun teschio di cristallo proviene da scavi documentati.
Tra i teschi posseduti da privati, è particolarmente famoso il teschio "Mitchell-Hedges". Secondo il racconto di Frederick Albert Mitchell-Hedges e della figlia adottiva Anna sarebbe stato trovato negli anni venti del XX secolo in una spedizione a Lubaantun, nell'Honduras Britannico (attuale Belize). Non vi è però traccia della scoperta del teschio nei resoconti della spedizione ed è dubbio anche che Anna vi abbia preso parte. Inoltre la ricercatrice Jane Maclaren Walsh ha scoperto che negli anni quaranta Mitchell-Hedges acquistò un teschio di cristallo.
Tra i più noti teschi di cristallo ci sono quelli chiamati "Max" e "Sha Na Ra". "Max", di proprietà dei coniugi Parks, sarebbe stato trovato in Guatemala negli anni Venti, ma anche in questo caso non c'è alcuna documentazione a sostegno di tale affermazione. "Sha Na Ra" sarebbe stato trovato in Messico da Nick Nocerino, personaggio televisivo autodefinitosi "esperto di teschi di cristallo". Nocerino non rivelò mai l'origine del ritrovamento, giustificandosi con l'attribuire la riservatezza a presunte "questioni di sicurezza per il personale coinvolto, a causa della situazione politica messicana". Né i teschi, né gli altri oggetti che Nocerino avrebbe rinvenuto, sono mai stati sottoposti ad analisi indipendenti.
Negli anni ottanta, sull'onda della moda lanciata dalle pubblicazioni su questi manufatti, comparvero numerosi altri teschi, dal Texas a Los Angeles; ad alcuni di questi venivano attribuite origini avventurose o poteri taumaturgici, ma di nessuno di questi si è potuta provare l'autenticità (mentre alcuni sono risultati veri e propri tentativi di truffa). Secondo i cultori dei teschi di cristallo, di tali oggetti si parlerebbe nelle tradizioni dei Maya e di altre culture native americane, ma queste asserzioni sono da ascrivere piuttosto ad un folclore degli ultimi decenni applicato retrospettivamente.
Nel 1970 il teschio Mitchell-Hedges venne affidato al laboratorio della Hewlett-Packard, guidato da Frank Dorland, in quanto centro di eccellenza per la ricerca sui cristalli. I risultati vennero pubblicati in un articolo dal titolo "history or hokum?" dove il secondo termine possiamo tradurlo con "nonsenso". In esso risulta soltanto che sia stato scolpito in un blocco unico di materiale e ne ha stabilito esclusivamente la tecnica di lavorazione, ritenuta compatibile con un'origine precolombiana del manufatto. L'articolo conclude che si tratti di un bellissimo pezzo artistico, ma che non ci sia modo di datarlo. Non risponde inoltre a verità che "gli scienziati affermarono alla fine della analisi che il teschio sembrava essere stato scolpito con un moderno laser o con ceselli di precisione". Da notare che gli impieghi ablativi del laser si sarebbero avuti solo negli anni novanta.
Nel 1996 i teschi del British Museum e della Smithsonian Institution sono stati sottoposti ad analisi presso il British Museum, rivelando segni di lavorazione con strumenti disponibili nell'Europa della seconda metà dell'Ottocento. Anche questo elemento suggerisce che si tratti di falsi fabbricati in tale periodo. In quell'occasione erano stati portati anche i teschi "Max" e "Sha Na Ra" (mentre Anna Mitchell Hedges aveva rifiutato di portare il suo), ma il British Museum, in applicazione della propria norma di non fornire valutazioni su oggetti provenienti da collezioni private, non ha espresso alcun giudizio su di essi.
In passato, intorno al teschio inglese si erano catalizzati racconti folcloristici quanto infondati, che suggerivano che il teschio si muovesse all'interno della teca. Anche il fatto che il teschio fosse stato rimosso dall'esposizione aperta al pubblico è una leggenda urbana: il teschio è oggi esposto all'interno della prima sala dell'ala sinistra, sul lato sinistro della parete dove si apre la porta d'ingresso.
In particolare, per l'esemplare esaminato, si è riusciti a risalire ad una probabile origine tedesca della lavorazione, mentre la roccia cristallina è di origine brasiliana. Ricerche documentali negli scritti relativi alle collezioni del museo, hanno portato a identificare nell'antiquario francese Eugène Boban l'organizzatore di questo traffico di falsi. Altri teschi furono analizzati insieme a quello del British, tra cui quelli di Nocerino e quelli americani. Nessuno di questi teschi aveva evidenze che potessero supportare una presunta antichità, mentre anzi le probabilità spingevano a pensare ad un'origine molto più moderna.





venerdì 3 dicembre 2021

Vaso di Dorchester

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Il vaso di Dorchester è un vaso metallico (probabilmente una lega di zinco e argento) che sarebbe stato trovato durante alcuni lavori edili a Dorchester, nel Massachusetts (USA), nel 1851, incluso in uno strato di pietra che alcuni affermano risalire a circa 320 milioni di anni fa. Per questo motivo viene citato come un OOPArt. Le circostanze del suo ritrovamento sono molto dubbie.
La prima fonte documentata che fa riferimento al vaso di Dorchester è il numero 38 della rivista Scientific American del 5 giugno 1852. Il trafiletto dello Scientific American riportava a sua volta un articolo di un altro giornale, il Transcript di Boston:
Alcuni giorni fa è stata prodotta una potente esplosione nella roccia della Meeting House Hill, nel quartiere di Dorchester, pochi isolati a sud della sala conferenze del Rev. Sig. Hall. L'esplosione ha prodotto un'immensa quantità di pietrame, alcuni pezzi del peso di alcune tonnellate, e ha scagliato frammenti più piccoli in tutte le direzioni. Tra questi è stato raccolto un vaso metallico separato in due pezzi, per la frattura provocata dall'esplosione. Le due parti riunite formano un vaso a forma di campana, alto 11,4 cm, largo 16,5 cm alla base e 6,3 cm in cima, e di circa tre millimetri di spessore.[...]
L'articolo del Transcript proseguiva descrivendo le decorazioni del vaso ("sei figure di un fiore, o un bouquet, splendidamente intarsiato nell'argento puro, e attorno alla parte bassa una pergola, o tralcio, intarsiata anch'essa nell'argento"), e affermava che il vaso sarebbe stato trovato sepolto in una roccia puddinga, a circa 4.63 metri di profondità. L'articolo del Transcript si chiudeva con la domanda:
Non c'è alcun dubbio che questa curiosità era saltata fuori dalla roccia, come sopra detto; ma vuole il Professor Agassiz, o qualche altro scienziato, dirci per favore come questo è arrivato lì? L'argomento è degno d'investigazione, perché in questo caso non vi è alcun inganno.
Lo Scientific American chiudeva invece l'articolo con un commento ironico e scettico nei confronti del ritrovamento:
Quanto sopra proviene dal Transcript di Boston e quello che ci stupisce è come il Transcript può supporre che il Prof. Agassiz sia qualificato a dirci come sia arrivato lì più di John Doyle, il fabbro ferraio. Non si tratta di una questione di zoologia, botanica o geologia, ma una questione relativa ad un antico vaso metallico, forse fatto da Tuba-Cain, il primo abitante di Dorchester.
L'ultima frase è un riferimento ironico a Tubal-Cain, figlio di Adamo ed Eva, indicato nella Bibbia come il primo fabbro dell'umanità.
La roccia puddinga da cui si afferma essere stato estratto il vaso è un conglomerato basaltico formatosi in epoche preistoriche (Devoniano superiore o Permiano).
Secondo lo scopritore, il vaso sarebbe stato inglobato nella roccia al momento della sua formazione, e pertanto il reperto avrebbe almeno 100.000 anni, essendo dunque in contrasto con la storia dell'uomo fino ad allora conosciuta (sarebbe, quindi, un OOPArt). Tuttavia le circostanze del ritrovamento (la presunta "esplosione", l'assenza di documenti verificabili e le testimonianze giornalistiche poco affidabili), non permettono di avere nessuna certezza sul fatto che il vaso fosse incluso nella roccia.
Secondo i sostenitori dell'origine misteriosa, le piante della decorazione dell'oggetto rappresenterebbero esemplari dello Sphenophyllum laurae, una pianta fossile risalente al Carbonifero superiore.
L'argomento presuppone tuttavia che la decorazione del vaso costituisca una rappresentazione realistica di una pianta, mentre nel campo decorativo è assai più comune utilizzare forme vegetali stilizzate senza alcun diretto riferimento a oggetti realmente esistenti.
L'articolo originale, inoltre, non conteneva alcuna foto dell'oggetto, che appare invece, senza alcuna informazione sulla fonte, solo negli articoli recenti. Inoltre, l'oggetto della foto è decorato con quattro grandi fiori mentre nell'articolo del 1852 si parla di sei fiori. L'aspetto del vaso fotografato, che non mostra alcuna frattura o danno, fa pensare ad un comune candeliere realizzato nello stile dell'epoca.
Con il tempo il vaso scomparve. Diverse sono le interpretazioni: i sostenitori della sua autenticità sostengono una tesi complottista secondo cui la scomparsa sarebbe dovuta alla volontà di nascondere l'autenticità dell'artefatto da parte del "mondo scientifico", mentre gli scettici sono convinti che la scomparsa sia da attribuirsi al fatto che gli autori abbiano ritenuto che la bufala avrebbe potuto essere scoperta con delle analisi condotte sull'oggetto.
Un'ulteriore elemento a favore della tesi della bufala è il fatto che il vaso sarebbe stato trovato nel basalto, quindi in una roccia di origine magmatica proveniente dalle profondità della crosta terrestre. Il basalto nel mantello si trova in fusione a temperature comprese tra 3000 e 4000 °C, con temperatura media di 3700°C. Nessun metallo mantiene comportamento duttile a quelle temperature, nemmeno le leghe di rame-tungsteno il cui punto di fusione è di 3410 °C, e che sono solide solo a temperature inferiori ai 1080°C. Queste sono ad oggi considerate come i metalli dal punto di fusione più alto.
Per comparazione, il presunto metallo del vaso non potrebbe rimanere solido oltre i 1030 °C, e avrebbe comportamento duttile al di sopra dei 960°C.
Il debunker Biagio Catalano fa notare come il "vaso" risulti quasi identico, quanto a forma e decorazioni, a un poggiapipa indiano, allora conservato al Chhatrapati Shivaji Maharaj Vastu Sangrahalaya (ex Prince of Wales Museum) di Mumbai, così come raffigurato nel libro "Arte indiana" (Arnoldo Mondadori Editore, 1964), di K. Bharatha Iyer (v. fig. 81, tavole fuori testo; v. indice t.f.t. pag. 142).

giovedì 2 dicembre 2021

Uomo nero

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L’uomo nero è una creatura leggendaria, un essere amorfo, cattivo e oscuro presente nella tradizione di vari paesi. Negli Stati Uniti d'America è conosciuto come boogeyman (scritto anche bogeyman, boogyman o bogyman). Presso Portogallo e paesi ispanofoni tale figura è conosciuta col nome di El Coco. In Italia viene identificato anche con la figura del Babau.
L'uomo nero è un demone o uno spirito, ha l'aspetto di un uomo o di un fantasma ma nero, non ha gambe e dalla vita in giù sfuma in una punta. Fino al XX secolo la sua figura veniva accennata ai bambini che alla sera non volevano dormire; li si minacciava, infatti di chiamare l'uomo nero nel caso non avessero chiuso gli occhi e non si fossero addormentati come i parenti volevano.
È spesso sostituito dal babau; nel sud Italia ed in particolare in Puglia è spesso usato invece "vecchio col sacco", un fantasma con i compiti simili al tradizionale uomo nero, anche se a volte anche gli spiriti dispettosi della casa (l'Aùre o Avùrie, o lo Scazzamurrhieddru o Scazzamurrill), mentre in Sardegna è noto come mommottu, mommotti o anche bobotti.
Sarebbe stato creato dalle madri americane per spaventare i bambini e impedire loro di fare azioni avventate e non alzarsi per girovagare durante la notte. Numerose sono le canzoncine presenti negli Stati Uniti in merito a questo personaggio degli incubi.
Il nome Boogeyman deriva, probabilmente, dalla parola inglese Bogman usata per indicare uomini che, banditi dalle loro comunità erano costretti a rifugiarsi nelle torbiere, territori paludosi non reclamati da nessuno, in inglese Bogs. Tali terreni, molto diffusi in Inghilterra, sono invece alquanto rari negli Stati Uniti, soprattutto nelle colonie originali, pertanto l'espressione cessò di essere comprensibile e si deformò in Boogeyman.
Un'altra interpretazione la fa derivare dai bogie, spiriti meschini che vivrebbero nell'ombra. Tali creature possono trovarsi nei granai, nelle cantine e in tutti quei luoghi polverosi dove la gente tiene le cose che non vuole buttare via.
Diffuso nel New Mexico, Colorado, America Latina, Portogallo e Galizia; l'uomo nero (o meglio ancora El Coco) è raffigurato come uno spirito antropomorfo con una testa di zucca ed interessato a rapire i bambini disubbidienti.
Il nome Coco (o Coca) è derivabile dalla parola portoghese/spagnola coco (testa).
La parola coco però indica anche il cocco: si dice che tale ominimia sia attribuile ai marinai di Vasco de Gama, ai quali tale frutto esotico ricordava la fantomatica creatura leggendaria.

mercoledì 1 dicembre 2021

Ursus arctos piscator

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L'orso di Bergman (Ursus arctos piscator Bergman, 1920) è una presunta sottospecie di orso bruno, probabilmente estinta, che viveva nella Penisola di Kamchatka. Venne identificato e battezzato dallo zoologo svedese Sten Bergman nel 1920.
Bergman ritenne che si trattava di una distinta sottospecie dopo aver esaminato una pelle (la cui pelliccia era molto diversa da quella degli altri orsi del luogo) ed una serie di impronte di 36,8 x 25,4 centimetri che giudicò molto più grandi di quelle degli altri orsi della Kamchatka.
Alcuni pensano che la Guerra Fredda possa aver aiutato la popolazione ad aumentare di numero, dato che in quel periodo l'Esercito Sovietico aveva bloccato l'accesso all'area.
L'interesse riguardo a quest'orso tornò alla ribalta durante gli anni '60. Il cacciatore Rodion Sivobolov riportò testimonianze di alcuni nativi della Kamchatka riguardo ad un orso insolitamente grande che chiamavano sia Irkuiem (che tradotto alla lettera significa «calzoni tirati giù» a causa dell'aspetto delle zampe posteriori) od «Orso Divino», per le sue grandi dimensioni.
Sulla base della descrizione di Sivobolov, il biologo N. K. Vereshchagin ha suggerito che gli orsi divini potrebbero trattarsi di esemplari relitti di Arctodus simus, un gigantesco orso ormai estinto. Quest'ipotesi però è stata accolta con freddezza dalla comunità scientifica; i resti di Arctodus non sono mai stati trovati al di fuori delle Americhe e, cosa più importante, quest'orso apparteneva ai Tremarctini, che differiscono considerevolmente nell'aspetto dagli orsi «tipici» (Ursini). In particolare, i Tremarctini hanno zampe lunghe e più snelle (secondo gli standard degli orsi), caratteristica che non concorda con il nomignolo di «calzoni tirati giù».

martedì 30 novembre 2021

Vetrificazione dei forti

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La vetrificazione dei forti è un processo chimico-fisico indotto dall'alta temperatura a cui, in epoca preistorica, venivano esposti i muri in pietra delle fortificazioni sommitali europee, secondo un'usanza che si colloca nell'età del ferro nord-europea.
Il fenomeno fu descritto per la prima volta nel 1777 da John Williams, uno dei primi geologi britannici, in base all'evidenza osservabile di grandi residui di roccia vetrificata, colata come dopo un raffreddamento, ma le questioni sollevate da questa osservazione sono oggetto di dibattito e di controversie e rimangono ancora in buona parte inspiegate e aperte alla discussione scientifica. Gli studiosi, ad esempio, concordano sul fatto che la vetrificazione dovette avvenire mediante esposizione a un'intensa fonte di calore già in età preistorica e non in un'epoca successiva, ma rimangono insolute e dibattute le domande sul perché le mura fortificate venissero sottoposte a una "vetrificazione" e sul come questo avvenisse.
In particolare, non è chiaro come venisse prodotta l'esposizione all'alta temperatura necessaria a determinare la parziale o totale fusione dell'opera muraria, paragonabile a quella rinvenibile in un vulcano, i cui effetti si conservano nell'aspetto esteriore di vetro colato e solidificato per raffreddamento: più nello specifico, si è appurato che dovrebbe parlarsi di "alte temperature", al plurale, vista la natura mutevole delle rocce usate, di volta in volta, nella costruzione dei forte (in genere di provenienza locale), da cui conseguivano variazioni anche notevoli nelle temperature da raggiungere, nell'ordine di uno o due centinaia di gradi centigradi.
Il fenomeno delle rocce vetrificate occorre in molti luoghi d'Europa ma la regione in cui doveva essere più diffuso, e nella quale sopravvivono gli esempi più noti è la Scozia, la prima regione d'Europa in cui tali resti archeologici furono rivenuti.
Riguardo alla natura delle rocce, si trattava, a seconda della disponibilità locale, di rocce metamorfiche, rocce ignee, o rocce sedimentarie.

 
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