lunedì 7 febbraio 2022

The Green Goddess

Risultati immagini per The Green Goddess crowley



Absinthe: The Green Goddess, scritto da Aleister Crowley nel 1918 e pubblicato originariamente da The International, Volume XII, N° 2, nel febbraio del 1918, è un saggio sugli effetti dell'Assenzio, composto nel leggendario Old Absinthe House di New Orleans. In questo scritto Crowley esalta le virtù ispiratrici di questo liquore verde leggermente allucinogeno, e parla contro la crescente ondata di proibizionismo che stava spazzando gli Stati Uniti come la prima "guerra alla droga".
L'opera consiste di otto capitoli.


domenica 6 febbraio 2022

Agrippa von Nettesheim

Risultati immagini per Agrippa von Nettesheim


Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim (Colonia, 15 settembre 1486 – Grenoble, 18 febbraio 1535) è stato un alchimista, astrologo, esoterista e filosofo tedesco.
Divenne medico personale di Luisa di Savoia nonché storiografo di Carlo V; ritenuto principe dei maghi neri e degli stregoni, riuscì tuttavia a sfuggire all'Inquisizione. Il suo pensiero risiede essenzialmente nella sua opera più importante, il De occulta philosophia, scritta nell'arco di circa venti anni, dal 1510 al 1530: la filosofia occulta è la magia, considerata «la vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta, in una parola la perfezione e il compimento di tutte le scienze naturali».

Biografia

Heinrich nacque il 15 settembre 1486 a Colonia nella famiglia Cornelis. Il soprannome di Agrippa, derivato dall'antico nome latino della sua città, Colonia Agrippina, fu assunto dal padre e trasmesso ai figli. Col tempo, Heinrich latinizzò il proprio cognome in Cornelius e, vantando dubbie origini nobiliari, si fece chiamare Agrippa von Nettesheym, dal nome di un villaggio presso Neuss, non lontano da Colonia.
Apprese le prime nozioni di astrologia dal padre e studiò arti liberali nelle scuole di Colonia, diplomandosi maestro di arti nel 1502. Intorno ai vent'anni andò a Parigi per frequentarvi l'Università ed entrò a far parte di un circolo di studenti, fondato da un italiano di nome Landolfo. Questo gruppo si dedicava allo studio delle scienze ermetiche e, poiché tale attività poteva dar luogo a sospetti e persecuzioni, il circolo aveva tutte le caratteristiche di una società segreta, di cui Agrippa, in virtù della sua grande erudizione, divenne ben presto il personaggio più influente ed ascoltato.
Nel 1508, insieme a Landolfo, andò in Spagna, mettendosi a servizio militare del re Ferdinando: dopo qualche mese, guadagnato per i suoi meriti - così almeno egli sostiene - il titolo di cavaliere, s'imbarcò da Valencia per approdare, dopo un viaggio avventuroso, in Francia e stabilirsi alla fine dell'anno ad Avignone. Di qui scrisse a Landolfo, che si trovava a Lione:
« Dopo queste terribili prove, non ci resta che ricercare i nostri amici per rinnovare i sacramenti della nostra congiura e ristabilire l'integrità della nostra associazione »
(Epistolae I, 8, 20 dicembre 1508)

Landolfo gli rispose il 4 febbraio 1509, proponendogli l'affiliazione di un tedesco di Norimberga residente a Lione, descritto come un «curioso indagatore degli arcani della natura [...] lancialo dunque per provarlo nello spazio e, portato sulle ali di Mercurio, vola dalle regioni dell'Austro a quelle dell'Aquilone, prendi anche lo scettro di Giove [...] e associalo nella nostra confraternita». Mercurio, o Ermes, è la guida ai misteri, e il volo dall'Austro all'Aquilone è il passaggio necessario all'iniziazione del profano.
Per questo motivo Agrippa si recò a Lione, poi andò ad Autun e di qui a Dole, nella Franca Contea, allora governata, con la Borgogna e i Paesi Bassi, da Margherita d'Asburgo, zia di Carlo, il futuro imperatore allora giovanissimo e ancora sotto tutela. A lei Agrippa dedicò il De nobilitate et praeecelentia foeminei sexus (Nobiltà e preminenza del sesso femminile) un trattatello, che verrà stampato venti anni dopo ad Anversa, nel quale egli sostiene la superiorità della donna rispetto all'uomo dal momento, afferma, che già il nome della prima donna, Eva, che significa vita, è più nobile di quello di Adamo, che vuol dire terra; anche l'esser stata creata dopo l'uomo è motivo di maggior perfezione e il corpo femminile, secondo lui, galleggia in acqua più facilmente. Inoltre la donna è più eloquente e più giudiziosa tanto che «filosofi, matematici e dialettici, nelle loro divinazioni e precognizioni sono spesso inferiori alle donne di campagna e molte volte una semplice vecchietta ne sa più di un medico».
Agrippa, nel tenere la sua declamazione in lode del sesso femminile, aveva colto l'occasione per ribattere davanti a tanto uditorio quanto espresso nel sesto capitolo del primo libro del Malleus maleficarum - il manuale dell'Inquisizione voluto e approvato da papa Innocenzo VIII appena venticinque anni prima. Nel Malleus si afferma infatti che le donne, per via del loro “intelletto inferiore”, sono per natura predisposte a cedere alle tentazioni di Satana, argomentando con un'etimologia falsa, secondo la quale la stessa parola “'femmina' viene da 'fede' e 'meno' perché la donna ha sempre minor fede e la serba di meno”. Citando le stesse fonti e gli stessi episodi dei due inquisitori domenicani, ma dando delle medesime questioni (in particolare del ruolo di Eva al momento del peccato originale) interpretazioni diametralmente opposte, Agrippa aveva deciso di confutare l'opinione teologica sull'inferiorità della donna. Egli vi opponeva una visione ermetico-neoplatonica, secondo la quale “Fra tutte le creature non v'è spettacolo così meraviglioso, né miracolo tanto riguardevole, al punto che si dovrebbe essere ciechi per non vedere chiaramente che Dio radunò tutta la bellezza di cui è capace l'intero universo e la diede alla donna, acciò che ogni creatura abbia buone ragioni per stupirsi di lei e riverirla ed amarla.”
Col difendere la dignità delle donne egli inoltre aveva espresso la sua adesione a una corrente, avviata circa un secolo prima, che a buon diritto si può definire “femminista” ante litteram, di cui si trovano tracce in Francia e alla corte di Borgogna (Christine de Pizan), ma anche in Spagna (Juan Rodríguez del Padrón) e Italia, rivendicando per loro i diritti all'istruzione e alla libera attività professionale, ovvero alla conoscenza e all'indipendenza economica: “Ma prevalendo la licenziosa tirannia degli uomini sulla giustizia divina e sulla legge naturale, la libertà accordata alle donne è oggi loro interdetta da leggi inique, soppressa dalla consuetudine e dalle usanze e totalmente cancellata fin dall'educazione, perché la femmina appena nata e nei primi anni di vita è tenuta in casa nell'ozio, e, quasi che ella non sia adatta a più alte occupazioni, non le è permesso nient'altro che badare all'ago e al filo; quando sarà giunta all'età del matrimonio sarà affidata alla forza e alla gelosia del marito, oppure sarà rinchiusa nella perpetua prigione di un monastero di monache. Tutti gli uffici pubblici le sono proibiti dalle leggi. Non le è concesso di intentare un'azione legale malgrado sia prudentissima. Inoltre è esclusa dal giudicare, dagli arbitrati, dall'adozione, dalla intercessione, dalla procura, dalla tutela, dalla cura, dalle cause criminali e testamentarie. E pure le è vietato di predicare la parola di Dio, il che è assolutamente contrario alle scritture.”
Sempre nel 1509, fu invitato dall'Università di Dole a commentare il De verbo mirifico del Reuchlin, nel quale l'umanista di Pforzheim univa, secondo gli insegnamenti ricevuti a Firenze, la tradizione cabalistica al neoplatonismo cristiano. Fu così che l'eco delle lezioni tenute da Agrippa pervenne fino al francescano Jean Catilenet, del vicino convento di Gray, il quale da Gand, durante la Quaresima del 1510, lo accusò di diffondere eresie giudaizzanti. Prudentemente, Agrippa decise di lasciare Dole per l'Inghilterra, avendo forse ricevuto dall'imperatore Massimiliano I un «incarico riservatissimo» da svolgere presso il re Enrico VIII.
Egli si stabilì a Oxford, ospite dell'umanista, amico di Erasmo, John Colet, allievo di Marsilio Ficino e lettore nell'Università. Qui scrisse la sua risposta al Catilenet, l'Henrici Cornelii Agrippae expostulatio super expositione sua in libro De verbo mirifico, stampata nel 1529, accusando il frate di non conoscere la scienza ebraica, e di aver mancato di confrontarsi direttamente e «cristianamente» con lui.
In Inghilterra continuò anche a lavorare alla sua De occulta philosophia, della quale aveva già mandato in visione i primi due libri a Giovanni Tritemio, già abate del monastero benedettino di Sponheim e ora a Würzburg, accompagnandoli con una lettera nella quale si chiedeva perché mai la magia
« così altamente stimata dai filosofi antichi, venerata nell'antichità da sapienti e poeti, era divenuta nei primi tempi della religione sospetta e odiosa ai Padri della Chiesa ed era stata ben presto respinta dai teologi, condannata dai sacri canoni e proscritta dalle leggi [ ... ] l'unica causa è stata la depravazione dei tempi e degli uomini, grazie alla quale pseudo-filosofi, maghi indegni di questo nome, poterono introdurre esecrabili superstizioni e riti funesti [ ... ]e infine pubblicare quella quantità di libri che da per tutto circola e che va condannata, indegna del molto rispettabile titolo di magia [ ... ] così, ho ritenuto che sarebbe stata opera lodevole restaurare l'antica magia, la dottrina dei sapienti, dopo averla purgata degli errori di empietà e averla costituita su solide fondamenta »
(Epistolae, I, 23)



Tritemio gli aveva risposto di stupirsi «che tu, così giovane, abbia penetrato tali segreti, ignoti a tanti uomini istruiti, e li abbia esposti non solo in modo chiaro e preciso, ma anche con proprietà ed eleganza esortandolo a «dare fieno al bove e zucchero al pappagallo», cioè a non divulgare a tutti i risultati dei suoi studi, ma soltanto a chi fosse in grado di comprenderli.
Agrippa, tornato per un breve periodo a Colonia, nel 1511 partì per l'Italia, dove sarebbe rimasto sette anni.

In Italia

Nell'Italia devastata dalle guerre che vedevano protagonisti l'Impero, la Francia, il Papato e la Repubblica di Venezia, Agrippa fu per qualche mese al servizio di Massimiliano I. Quando Luigi XII indisse in settembre il concilio di Pisa, che avrebbe dovuto riformare la Chiesa e deporre papa Giulio II, Agrippa fu invitato dal cardinale Bernardino López de Carvajal, animatore del concilio, a parteciparvi in qualità di teologo: è possibile che egli abbia partecipato alla quarta sessione conciliare, tenutasi a Milano nel gennaio 1512.
Passò poi a Pavia per continuare i suoi studi, come testimonia una sua lettera del 30 aprile, in cui loda ad un amico la scienza della cabala. Anche qui lo raggiunse la guerra: il 30 giugno fu fatto prigioniero dagli svizzeri e condotto a Milano, dove si riscattò. Seguirono una serie di viaggi: dopo il ritorno in agosto a Pavia, passò in novembre a Casale, presso il marchese Guglielmo IX poi, nel 1513 a Borgolavezzaro; nella primavera del 1514 fu a Milano, poi a Roma e di qui a Brindisi, finché nel 1515 tornò ancora a Pavia, dove si sposò, ebbe un figlio e fu nominato professore di quella prestigiosa Università. Vi commentò il Pimandro, attribuito a Ermete Trismegisto, testo greco scoperto il secolo precedente in Macedonia dal domenicano Leonardo da Pistoia e, da lui portato in Italia, fu tradotto in latino da Marsilio Ficino nel 1463. La nuova filosofia neoplatonica tendeva ad accordare ermetismo e cristianesimo ed anche Agrippa non si sottrasse a questa interpretazione.
Con la calata dei francesi, la guerra si riaccese in Lombardia fino alla vittoria di Francesco I a Melegnano nel settembre del 1515. Nuovamente Agrippa dovette fuggire a Milano e ancora una volta i mercenari svizzeri gli saccheggiarono la casa. Tornato a Pavia per riprendere la moglie e il figlio, con loro si stabilì a Casale dove scrisse, dedicandoli al marchese del Monferrato, il Dialogus de homine qui Dei imago est (Dialogo sull'Uomo immagine di Dio) e il De triplice ratione cognoscendi Deum, (I tre modi di conoscere Dio) che mandò a un certo Agostino, suo amico, che gli rispose facendogli grandi lodi. I tre modi di conoscere Dio secondo Agrippa sono: l'osservazione della natura, la lettura degli scritti profetici e del Nuovo Testamento. Egli definisce in particolare la Cabala Ebraica l'interpretazione della Legge trasmessa oralmente da Dio a Mosè e da questi, ancora oralmente, ad altri settanta saggi i quali a loro volta l'avrebbero ripetuta ad altri sapienti: dalla Cabala, che dunque costituisce la vera tradizione esoterica, si può pertanto risalire alla completa conoscenza di tutte le cose, naturali e divine.

La «strega» di Woippy

Partì nel febbraio 1517 per Torino, ove fu lettore di teologia all'Università e nel maggio si trasferì a Chambéry per assumere la carica di medico del duca Carlo II di Savoia, che lasciò tuttavia il 16 gennaio 1518, avendo accettato l'offerta di consigliere fattagli dalla città di Metz, dove entrò in rapporto con altri cultori dell'ermetismo, come Claude Chansonnet - latinizzato in Claudius Cantiuncula - o il celestino Claude Dieudonné, ma si fece anche dei pericolosi nemici: l'occasione fu il caso di una donna del vicino paese di Woippy, fatta imprigionare da un gruppo di contadini con l'accusa di stregoneria.
La ragazza era stata rapita dagli sgherri degli inquisitori francescani che volevano soddisfare con lei la loro lussuria: “Al principio dell'affare - scrive Agrippa in una lettera al suo amico Cantiuncula - un branco ignobile di contadini congiurati contro di lei ne invase la casa nel mezzo della notte. Questi depravati ubriachi di vino e di concupiscenza s'impadronirono della sventurata e di loro privata autorità, senza alcun diritto, senza mandato giudiziario, la gettarono nelle segrete di un loro palazzo. Ciononostante i signori del capitolo la fecero condurre a Metz e la consegnarono nelle mani del loro giudice ordinario, l'ufficiale della curia episcopale. Venne stabilito un termine entro cui i contadini motivassero le loro azioni e queste canaglie ebbero l'audacia di denunciarla. In soli due giorni tanto poté prevalere l'iniquità degli inquisitori e della banda di poco di buono che l'ufficiale che l'aveva in custodia la consegnò per alcuni fiorini nelle mani dei suoi accusatori, la denuncia di quattro dei quali era già stata respinta in quanto noti delinquenti. La poveretta fu allora trasferita con l'aggiunta di insulti e bastonate, come si poté provare con testimoni. Così, detenuta in un carcere più che ingiusto, prostrata dalle molte ingiurie, non trascorse neppure una notte tranquilla, con gli accusatori liberi di godersela col vino e nell'orgia."
Agrippa prese le difese della donna e narrò lui stesso l'episodio nelle sue lettere. L'inquisitore, il domenicano Nicola Savini, e l'ufficiale della curia vescovile, Jean Léonard, la fecero torturare, ma «quale motivo allega quest'inquisitore senza pietà per martirizzare così quella disgraziata? Quale prova dà egli che questa donna sia realmente una strega? Dice che sua madre è stata bruciata come strega; e io gli dico in faccia che i fatti degli altri non hanno valore contro un accusato [...] pretende che le streghe hanno l'abitudine di consacrare il frutto del loro ventre al diavolo e che, d'altra parte, siccome ordinariamente esse si danno al diavolo, questi è certamente il padre dei suoi figli ai quali trasmette la sua malizia».
E rivolgendosi all'inquisitore: «Con la tua perversa dottrina, tu misconosci la virtù del battesimo [...] tu, inquisitore della fede, con tutti i tuoi argomenti, non sei che un eretico». Il Savini, a sua volta, accusò di eresia l'Agrippa: la morte dell'ufficiale della curia, che fece in tempo a rilasciare una dichiarazione giurata con la quale riconosceva l'innocenza della donna, pose fine al processo.
Una nuova violenta polemica vide però coinvolto Agrippa. Egli prese le difese dell'umanista evangelico Jacques Lefèvre d'Étaples, che sosteneva che sant'Anna avesse avuto una sola figlia, Maria, e non tre, come sostenuto dalla Chiesa. Additato come eretico a tutta la città dal priore domenicano Claudio Salini, professore alla Sorbona, il 25 gennaio 1520 egli preferì lasciare Metz e fare ritorno a Colonia.

Medico di corte

Non rimase a lungo a Colonia: nella primavera del 1521 si mise nuovamente in viaggio con la famiglia, e proprio a Metz morì sua moglie. Agrippa e il piccolo figlio andarono a Ginevra, dove si risposò in settembre con la diciottenne Jana Luisa Tissie, che gli darà sei figli. Nel 1522 divenne direttore dell'ospedale ginevrino ma già nel 1523 decise di trasferirsi a Friburgo, assunto come medico dai governatori di quella città. La sua inquietudine o forse la necessità di guadagnare il necessario per continuare i suoi studi preferiti, lo spinsero ancora a un nuovo trasferimento: nel febbraio 1524 lasciò Friburgo per Lione.
In questa città, una delle più moderne, attive, ricche e colte della Francia, si era allora stabilito Francesco I con tutta la corte, impegnato com'era nelle guerre combattute nella vicina Italia. In agosto Agrippa divenne medico della regina madre, Luisa di Savoia, che dovette prendersi cura degli affari dello Stato dopo la sconfitta di Pavia e la prigionia del figlio, tornando a Parigi. Sono anni nei quali l'interesse e la fede nel'astrologia sono al culmine: Agrippa - che non credeva nell'astrologia, come scrisse nel De incertitudine et vanitate scientiarum, composto in quell'anno - faceva anche oroscopi all'unico scopo di guadagnare qualcosa ma, quando Luisa gli chiese un oroscopo per il figlio, rifiutò. Ne scrisse anche in lettere nelle quali si lamentava della superstizione della regina che, venuta a conoscenza del loro contenuto, lo licenziò nell'ottobre del 1526. Lo scrive all'amico Giovanni Capellane:
« Mi sono ricordato quanto è scritto nelle sacre scritture: non fidatevi dei principi; ho letto nei filosofi: non c'è da fidarsi delle donne; a scuola imparai da Virgilio: varium et mutabile semper foemina. E io, doppiamente stolto, dimentico degli avvertimenti umani e divini, mi sono fidato da chi è insieme principe e donna »
(Lione, ottobre 1526)



Predisse però grandi successi al duca di Borbone, comandante dell'esercito imperiale, sperando certamente di ingraziarselo e di farsi assegnare qualche importante incarico, ora che la sua situazione economica era divenuta precaria. E la sua sfiducia nell'astrologia si rivelò in buona parte fondata, dal momento che il duca ebbe sì successo ma lasciò la vita nell'assedio di Castel Sant'Angelo a Roma.
Non avendo più motivo di rimanere a Lione, Agrippa cercò una nuova sistemazione. Con l'aiuto finanziario del banchiere e commerciante genovese Agostino Fornari, che aveva affari a Lione e ad Anversa, nel dicembre 1527 Agrippa, passando per Parigi, raggiunse la città fiamminga nel luglio 1528.
Ad Anversa continuò ad esercitare la libera professione medica: quando nella città, nell'agosto del 1529, scoppiò l'epidemia di peste nella quale morì sua moglie, egli si prodigò nella cura dei malati, diversamente dalla maggior parte degli altri medici, che si erano allontanati in fretta alle prime avvisaglie del morbo. Finita l'epidemia, tornarono e accusarono un certo Jesn Thibault di aver esercitato abusivamente la professione. Agrippa lo difese: «Si sono visti questi dottori scappare e abbandonare la popolazione senza curarsi dei giuramenti prestati nelle mani dei magistrati e degli obblighi contratti ricevendo lo stipendio dello Stato, mentre Jean Thibault e alcuni altri si prodigavano coraggiosamente per la salvezza della città. E ora questi medici scolastici, questi dottori sesquipedali, vorrebbero ingarbugliare con i loro sofismi, disputando sulla nostra salute e la nostra vita a forza di sillogismi cornuti».
Ad Anversa aveva fatto pubblicare gli scritti già composti anni prima, con l'aggiunta della Dehortatio gentilis theologiae, del De originali peccato e del Regimen adversus pestilentiam: ora, in rotta con i maggiorenti della città in cui si trovava a vivere, pensò ancora una volta a un trasferimento: accettò l'offerta di Margherita d'Asburgo di consigliere, archivista e storiografo dell'imperatore e, ai primi del 1530, prese possesso del nuovo incarico a Malines, allora capitale dei Paesi Bassi e sede del governo.

Storiografo imperiale

Qui si sposa per la terza volta e onora l'incarico ricevuto facendo pubblicare nel 1530 ad Anversa la sua Caroli V coronationis historia, che celebra l'incoronazione di Carlo V avvenuta a Bologna quello stesso anno per mano del papa Clemente VII e, soprattutto, le sue opere maggiori, il De incertitudine et vanitate scientiarum et artium et excellentia Verbi Dei declamatio in settembre, e il primo libro del De occulta philosophia l'anno seguente, tutte munite di privilegio imperiale, accordato anche ai Commenti a Raimondo Lullo e alle Orationes er Epistolae, che garantiva ad Agrippa la possibilità di stampare quelle opere per altri sei anni, salvaguardando i suoi diritti e soprattutto, fornendogli un importante riparo contro possibili attacchi polemici e censure.

Il De incertitudine

« Mi aspetto i più fieri attacchi, sorde macchinazioni e ingiurie. Grammatici, poeti, matematici, astrologi, indovini, filosofi, impiegheranno tutti le loro armi contro di me. I papi onnipotenti mi danneranno all'inferno [ ... ] il teologo mi condannerà per eresia e vorrà obbligarmi ad adorare i suoi idoli [ ... ] ma io mi proteggo con la parola di Dio »
(Agrippa, De incertitudine et vanitate scientiarum et artium, prefazione)



E infatti l'opera è un attacco contro tutte le scienze, o quelle che tali erano reputate, e contro il clero: secondo Agrippa si fanno monaci i ribaldi per sfuggire alla giustizia, gli avventurieri che hanno perduto il loro patrimonio, i poltroni per guadagnarsi da vivere senza essere costretti a lavorare: «securi da tutti i pericoli del mondo et dalle molestie civili, mangiano il pane ozioso et furfantuoso in cambio di quello che si acquista colle fatiche, dormendo agiatamente e senza pensieri; et credono che questa sia povertà evangelica, vivere in ozio et furfanteria delle fatiche altrui».
E non solo: essi frequentano prostitute che «s'hanno talora mantenuto nei monasteri sotto cocolla di monaco e vestimenta di uomo» quando non vivono con concubine: «un vescovo, durante un convito s'è vantato di avere sotto la sua giurisdizione undicimila sacerdoti viventi in concubinaggio, da cui ogni anno ricavava un bel gruzzoletto d'oro».
Il De incertitudine contiene anche un attacco contro le «scienze segrete» - alchimia, astrologia, geomanzia, magia - e rappresenterebbe perciò una ritrattazione del De occulta philosophia, del quale era già stato pubblicato l'anno precedente il primo libro, e in generale degli interessi che pure egli aveva così a lungo coltivati, In realtà egli attaccava i cattivi cultori che degradavano le discipline ermetiche - come si è visto nella sua lettera al Tritemio - e insieme, probabilmente, fingeva di essere estraneo a interessi pericolosi per la sua reputazione: infatti, nella realtà, continuò a occuparsi di «scienze occulte», fino a pubblicare l'edizione definitiva del De occulta philosophia nel luglio del 1533 a Colonia.
Il De incertitudine fu condannato al rogo dai teologi della Sorbona il 2 marzo 1531 e l'Università di Lovanio considerò empie 43 proposizioni. Oltre a censurare le sue insinuazioni contro i costumi ecclesiastici e a considerare sospetta la sua definizione di Lutero come invictus haereticus e l'attribuzione al diavolo dell'invenzione del cappuccio dei frati, furono considerate senz'altro eretiche la sua condanna della venerazione delle immagini e delle cerimonie religiose, la svalutazione dei profeti e degli evangelisti, il suo scetticismo sull'utilità della teologia che pretenderebbe di definire Dio e, in generale, sull'utilizzo delle scienze per giustificare la religione.
Contro di lui fu sollecitato l'intervento dell'imperatore e Agrippa, non ricevendo da tempo il suo stipendio di storiografo, finì in prigione per debiti. Liberato, sfuggì ai creditori tornando a Colonia dove - malgrado tutto quello che aveva scritto contro il clero - poteva godere della protezione di tre cardinali: l'arcivescovo di Colonia Hermann von Wied, quello di Liegi Eberhard von der Mark e il legato pontificio Lorenzo Campeggi, nella cui casa stessa si accinse a scrivere la propria Apologia - dedicata al Campeggi - contro le accuse dell'Università fiamminga.
In essa ribadisce, appoggiandosi alla tesi del Cusano della «dotta ignoranza», che scienza e arte sono inutili anzi, persino fuorvianti, come sostiene lo stesso Agostino e il cristianesimo platonizzante, a una retta comprensione di Dio. Agrippa fece seguire l'Apologia adversus calumnias da una analoga Querela super calumnia che fece pubblicare in un unico volume a Colonia nel 1533. Nel novembre del 1532 si trasferì a Bonn da dove chiese per lettera un giudizio sul suo libro a Erasmo il quale, prudentemente non si espresse, ma volle dargli un utile consiglio:
« Ricordati di Louis de Berguin, uomo certamente di costumi discutibili, ma che si è perduto a causa dei suoi avventati attacchi contro monaci e teologi. Cosa non ho fatto per trattenerlo! Gli dissi che con questa gente perfino san Paolo avrebbe torto [ ... ] se proprio non puoi evitare di combatterli, cerca almeno di stare dalla parte della forza. Non metterti nelle loro mani e, soprattutto, non mi mischiare in quest'affare »
(21 aprile 1533, Epistolae, VII, 40)



Agrippa non volle dargli retta: come scrisse all'amico Chansonnet, «sono determinato a combattere senza tregua contro questo nugolo di sofisti e cappuccioni. Li dipingerò per quello che sono veramente al popolo che essi ingannano».

Agrippa e la Riforma protestante

L'agitazione religiosa prodotta dalle nuove idee riformate aveva investito anche Colonia e nel 1529 due «eretici» luterani, Peter Fliesteden e Adolf Clarenbach, erano stati bruciati sul rogo e lo stesso arcivescovo della città, Hermann von Wied, finì per passare alla Riforma protestante. Agrippa non prese pubblicamente posizione, non si sa se fu soltanto per prudenza o perché, come sembra più probabile, egli non aderisse alla Riforma, in quanto la sua visione della religione restava lontana da entrambe le confessioni cristiane.
Agrippa ebbe parole di ammirazione per Lutero già nel De incertitudine, che ribadì ancora a Melantone, quando scrisse da Francoforte, nel settembre del 1532, di salutargli Lutero «il grande eretico invitto, che come dice Paolo negli Atti, serve Dio secondo la setta che chiamano eresia». Si tratta di una stima riservata a un combattente coraggioso che non si estende necessariamente alle idee da lui professate e del resto Calvino non mancherà di condannare Agrippa, nel suo Traité des scandales (1550), rimarcando la distanza che lo poneva dalle confessioni riformate.
In questi ultimi anni è con lui, a Bonn, il giovanissimo Johann Wier, il discepolo che ne continuerà l'opera e ne difenderà la memoria. Ai primi del 1535 Agrippa si recò a Lione ma vi fu presto imprigionato, non si sa se per le vecchie accuse di aver diffamato la madre di Francesco I, Luisa di Savoia, o a conseguenza della condanna al rogo del suo De incertitudine, emessa dai teologi della Sorbona il 2 marzo di quello stesso anno. Rimesso tuttavia in libertà, pensò bene di allontanarsi dalla città, stabilendosi a Grenoble, dove morì pochi mesi dopo. Fu sepolto nella chiesa domenicana della città ma il fanatismo connesso alle guerre di religione che imperversarono a lungo in Francia non risparmiarono la sua tomba e i suoi resti andarono dispersi.

La pubblicazione del De occulta philosophia

Dedicato all'arcivescovo von Wied, il primo libro dell'opera fu pubblicato contemporaneamente ad Anversa e a Parigi nel 1531, con una prefazione nella quale ritrattava l'opera che pure pubblicava, Agrippa giustificava questa contraddizione sostenendo che, iniziata da giovane e interrotta, «ne circolavano copie corrotte [ ... ] non solo, ma alcuni, non so se più impazienti che impudenti, volevano stampare un libro così informe. Unicamente per evitare questo guaio, ho deciso di pubblicarlo io stesso», aggiungendo che non era «un delitto non lasciar morire questo frutto della mia giovinezza».
Questa giustificazione non persuade, apparendo un metter le mani avanti nel caso - molto probabile - che avesse provocato polemiche e anche persecuzioni, tanto più che Agrippa, nel novembre del 1532 consegnò all'editore Hetorpio e al tipografo di Colonia Jean Soter il secondo e soprattutto il terzo libro dell'opera, che egli aveva da poco concluso e che non era mai circolato in precedenza. E meno ancora persuade, osservando la reazione di Agrippa alla notizia che l'inquisitore di Colonia, Conrad von Ulm, il 1º gennaio del 1533, aveva proibito la stampa dell'opera. L'11 gennaio, da Bonn, Agrippa indirizzò la sua protesta ai magistrati di Colonia:
« Non lasciatevi impressionare da una falsa interpretazione della parola magia, spaventevole solo per il volgo, e su cui questi ipocriti sicofanti stanno imbastendo accuse di bestemmia e di eresia. Il mio libro non ha niente a che fare con la fede cristiana e con le sacre scritture e, come sapete, solo opponendosi a queste si può peccare. Altrimenti, condannate tutto quel che non è fede e Vangelo [ ... ] I vostri teosofisti lascino stare quel che non li riguarda e non sono in grado di capire »
(Epistolae, VII, 26)



Finalmente, superate le difficoltà, l'Henrici Cornelii Agrippae ab Nettesheym a consiliis et archivis indiciarii sacrae Caesareae majestatis de Occulta Philosophia libri tres. Nihil est opertum quod non reveletur et occultum quod non sciatur. Matthaei X. Cum gratia et privilegio Caesareae majestatis ad triennium, comparve nel luglio 1533.

L'apocrifo del quarto libro

Nel 1559, a Marburgo, comparve l'edizione di un quarto libro del De occulta philosophia[17], ovvero un De Caerimonjis Magicis, trattato di magia cerimoniale, che Johann Wier, allievo di Agrippa a lui molto vicino, riconobbe come un falso e che come tale è considerato tuttora, in virtù dell'analisi del suo contenuto e dello stile, lontano dal latino letterario di Agrippa (il libro è stato spesso pubblicato insieme ai Magica elementa, un testo di magia bianca scritto da Pietro d'Abano. Per questo è frequente che i due testi vengano associati nelle menzioni di XVI e XVII secolo). Il contenuto di questo testo spurio, che nelle traduzioni italiane viene tramandato come libro del comando, consiste in un'iniziazione alla magia cerimoniale e all'evocazione degli spiriti.

La magia

La Filosofia occulta è la Magia. Già nei primi due capitoli del I libro dell'opera, intitolato La magia naturale, Agrippa stabilisce l'intento dell'opera: premesso che esistono tre mondi, l"Elementare"', il '"Celeste"'e l"Intellettuale"', investigati rispettivamente da tre scienze, la Fisica o Magia naturale - che svela l'essenza delle cose terrene - la Matematica o Magia celeste - che fa comprendere il moto dei corpi celesti - e la Teologia o Magia cerimoniale - che fa comprendere «Dio, la mente, gli angeli, le intelligenze, i demoni, l'anima, il pensiero, la religione, i sacramenti, le cerimonie, i templi, le feste e i misteri [ ... ]
La Magia racchiude queste tre scienze traducendole in atto. Essa è «la vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta [ ... ] il compimento di tutte le scienze naturali»: essa è dunque la scienza integrale della natura, tanto fisica che metafisica, e l'espressione equivalente di «Filosofia occulta» indica tanto la sua natura di scienza - la filosofia è la scienza di tutte le cose, materiali e spirituali - quanto il fatto che tale scienza è riservata a pochi, è sapienza esoterica ma può essere appresa:
« Coloro che vorranno dedicarsi allo studio della Magia, dovranno conoscere a fondo la Fisica, che rivela la proprietà delle cose e le loro virtù occulte; dovranno essere dotti in Matematica, per scrutare gli aspetti e le immagini degli astri, da cui traggono origine le proprietà e le virtù delle cose più elevate; e infine dovranno intendere bene la Teologia, che dà la conoscenza delle sostanze immateriali che governano tutte queste cose. Perché non vi può essere alcuna opera perfetta di Magia, e neppure di vera Magia, che non racchiuda queste tre facoltà »
(De occulta philosophia, I, 2.)

Libro I

I quattro elementi costituiscono tutte le cose, materiali e spirituali

Gli elementi che costituiscono tutte le cose «terrene» sono quattro, sostiene Agrippa, seguendo le conoscenze del tempo: fuoco, terra, acqua e aria, nessuno dei quali si trova in natura allo stato puro. Due sono le qualità specifiche di ogni elemento, delle quali una è propria dell'elemento, l'altra è invece condivisa con un altro: «il fuoco è caldo e secco, la terra è secca e fredda, l'acqua è fredda e umida e l'aria è umida e calda». L'opposizione delle qualità rende opposti fra loro, a due a due, gli elementi: così, sono opposti il fuoco e l'acqua, e la terra e l'aria.
Agrippa, tuttavia, seguendo Platone, individua altre sei qualità, assegnandone tre a ciascun elemento: chiarezza, rarefazione e movimento al fuoco, e oscurità, densità e immobilità alla terra; l'aria ha due qualità comuni col fuoco, rarefazione e movimento, e una con la terra, l'oscurità, mentre l'acqua assume due qualità dalla terra, oscurità e densità, e una dal fuoco, il movimento. Tali qualità sono presenti in grado diverso nei quattro elementi e «chiunque conoscerà le proprietà degli elementi e le loro mescolanze, potrà agevolmente operare prodigi ed eccellere nella Magia naturale».
Agrippa distingue gli elementi in tre ordini: al primo ordine appartengono gli elementi puri, cioè non composti, non trasmutabili, non mescolabili e incorruttibili. Al secondo, gli elementi composti e impuri che, quando sono ridotti a purezza, «la loro virtù è sopra ogni cosa». Al terzo ordine appartengono elementi «decomposti, dissimili, provvisti di ogni sorta di qualità, che possono cambiarsi reciprocamente l'uno nell'altro [ ... ] pochi ne intendono i profondi misteri [ ... ] attraverso di essi si possono operare meraviglie in tutte le cose naturali, celesti e sovracelesti, nonché tanto nella Magia naturale che in quella celeste [ ... ] si perviene a conoscere e a predire l'avvenire e da essi discende lo sterminio dei cattivi demoni e la conciliazione con gli spiriti buoni».
Come vi sono quattro elementi semplici, così quattro sono i corpi da loro composti, ossia le pietre, i metalli, le piante e gli animali. Seppure alla loro composizione concorrano tutti gli elementi, nelle pietre prevale la terra, nei metalli l'acqua, nelle piante l'aria mentre gli animali «traggono la loro forza dal fuoco e l'origine dal cielo». Le singole qualità di ciascun corpo derivano dalle qualità dei diversi elementi: così, la trasparenza del quarzo deriva dall'acqua, le qualità del piombo dalla terra e quelle dell'oro e del ferro dal fuoco. Negli esseri viventi, la collera deriva dal fuoco, il sangue dall'aria, la bile dalla terra e, secondo Agostino, l'intelletto è simile al fuoco, la ragione all'aria, l'immaginazione all'acqua e il sentimento alla terra.
Gli elementi non sono soltanto nelle cose del nostro pianeta, «ma anche nei cieli, nelle stelle, nei demoni, negli angeli e in Dio stesso, che è il creatore e l'animatore di tutte le cose», con la differenza di «essere allo stato di purezza e in tutta la loro potenza»: in particolare, di Dio è detto che «la terra s'apra e generi il Salvatore» ed è chiamato nelle Sacre Scritture sorgente di acqua viva e soffio vitale, mentre Mosè e san Paolo dicono che egli è un fuoco divorante.

I poteri occulti delle cose

Oltre ai poteri derivati dagli elementi alle cose, queste hanno poteri, per esempio di «neutralizzare l'effetto di un veleno, di combattere gli antraci, di attirare il ferro», derivanti dalla loro specie e forma, che si chiamano occulti perché «le loro cause ci sfuggono e lo spirito umano non può penetrarli. Perciò solo i filosofi hanno potuto, per lunga esperienza più che per ragionamento, acquistarne una parziale conoscenza». Esempi di poteri occulti sono il potere della Fenice di rinascere dalle sue ceneri, i pesci che vivono sottoterra, menzionati da Aristotele, le pietre che cantano, descritte da Pausania o le salamandre che vivono nel fuoco.
I poteri occulti derivano alle cose dalle idee - platonicamente intese come forme pure ed eterne - che vengono infuse nelle cose dall'Anima del Mondo: la sua virtù si comunica a tutte le cose cosicché «tutte le qualità occulte si diffondono sulle erbe, sulle pietre, sui metalli e sugli animali attraverso il sole, la luna, i pianeti e le stelle che sono superiori ai pianeti. E tale spirito ci sarà tanto più utile, quanto più sapremo separarlo dagli altri elementi e quanto meglio sapremo servirci delle cose in cui sarà penetrato più abbondantemente». È l'operazione tentata dagli alchimisti, che cercano di estrarre dall'oro il suo spirito per infonderlo agli altri metalli, «come noi abbiamo fatto e abbiamo visto fare, pur non potendo produrre una quantità maggiore di oro da quella originaria».
Le cose inferiori sono sottoposte alle superiori in un modo particolare, che fa sì che esse si ritrovino nel cielo «in un modo celeste», e quelle celesti si trovino in terra, «in un modo terrestre». Ciò che è in terra - pietre, piante ed animali - riceve le sue proprietà dai pianeti e dalle stelle; così, nell'uomo, anche gli organi sono variamente influenzati dai corpi celesti: il cervello e il cuore dal Sole e dall'Ariete, gli arti e la bocca da Mercurio, il fegato e il ventre da Giove, i genitali da Venere e dallo Scorpione. Anche i caratteri e gli umori sono influenzati: la tristezza da Saturno, l'ira da Marte, la gioia da Giove, la sensualità da Venere. Nell'astrologia, insomma, si può trovare la descrizione di tutti gl'influssi esercitati dalle stelle sugli uomini e sulle loro vicende.
Gli influssi dei corpi celesti possono essere attratti mescolando opportunamente le cose naturali che posseggano le qualità di quei corpi, dal momento che una sola cosa non può comprendere tutti i poteri di un astro. Una mescolanza sarà perfetta quando la riunione e il dosaggio siano fatti in «concordanza col cielo sotto una data costellazione» e in modo da ottenere un composto non facilmente scindibile, simile alle pietre.

Dottrina delle segnature

Risultati immagini per Dottrina delle segnature

La dottrina delle segnature (dal latino signatura, cioè «firma») è un'antica forma di conoscenza che studia l'aspetto, o appunto il «segno», con cui ogni elemento naturale di origine animale, vegetale o minerale si presenta, svelando per analogia la sua funzione terapeutica delle parti del corpo umano più simili ad esso.
Sviluppata da medici, botanici e alchimisti durante il Medioevo e il Rinascimento, tale dottrina si basava sulla corrispondenza ermetico-filosofica tra macrocosmo e microcosmo, ravvisando un rapporto di simpatia ovvero di affinità tra il mondo e l'essere umano, per cui ad esempio una noce ha una relazione occulta col cervello per via della loro somiglianza, o la forma di un fagiolo con quella dei reni.
Lo studio, applicato soprattutto alle piante medicinali, si estendeva ai nessi tra sagome, colori, odori, posizioni, tempi di manifestazione, caratteri, esiti patologici, temi astrali, temperamenti umorali, e diverse altre qualità, ritenute socciacenti a un comune archetipo spirituale.

Storia
Sin dai tempi antichi, l'uso delle piante medicinali faceva parte di quel complesso di conoscenze magico-religiose, diffuse in Egitto, Medio Oriente, India, Cina, che concepivano il cosmo come un organismo vivente, le cui parti, astrale, minerale, vegetale, animale, risultavano connesse da fenomeni di «simpatia» universale (dal greco syn-patheia, «sentire insieme»).
Il mondo greco riprese queste dottrine, sia nella riflessione teorica di Platone e Aristotele, sia nella pratica medica di Ippocrate e Galeno. Il termine greco pharmakon («rimedio») è stato associato in proposito all'egiziano phrt nt hk, così come lo stesso egiziano kmt («nero») avrebbe dato luogo al greco khemia («magia nera»), e attraverso questo all'arabo al-kimiya («alchimia»).
Un altro fra i più autorevoli medici e botanici greci fu Dioscoride, autore di un trattato, De materia medica, che ricollega l'origine dei farmaci alla storia della creazione del cosmo, offrendo una teoria completa per la quale ad esempio i profumi discendono dall'età dell'Oro, e i minerali da quella del Ferro. I primi, associati al caldo, venivano prescritti per il trattamento dell'umidità in eccesso come nei disturbi ginecologici, i secondi, associati al freddo, per contrastare gli eccessi di calore come le infiammazioni della pelle. Le varie sostanze, dagli effetti ora terapeutici ora velenosi a seconda del principio contraria contrariis curantur, furono da lui in tal modo organizzate in base alla loro somiglianza con i sintomi del corpo umano.
In ambito romano anche Plinio il Vecchio accennò alla dottrina delle segnature, pur senza enunciarla, nella sua Naturalis historia.
Nella tarda antichità una nuova tradizione alchemica si sviluppò nel contesto filosofico del neoplatonismo e dell'ermetismo, attingendo alle dottrine orientali delle religioni rivelate, come la kabbalah, il misticismo cristiano, l'alchimia islamica, prendendo coscienza come «la divina Provvidenza avesse stabilito per l'uomo di venire sopraffatto dalle malattie, ma allo stesso tempo che si dedicasse a coltivare le piante appropriate per curare tutti i suoi mali».

Medioevo
I botanici medievali rielaborarono la dottrina delle segnature a partire dagli insegnamenti di Dioscoride e Galeno, sostenendo che le erbe somiglianti a certe parti del corpo potessero trattare i disturbi di quelle stesse parti.
La medicina del tempo si mosse in particolare in due direzioni: una, su base astrologica, cercava di individuare le piante più idonee alla cura con l'ausilio delle stelle, l'altra mirava a definire le loro proprietà terapeutiche a seconda della forma delle foglie, del colore, delle appendici, dei succhi, e così via.
Pur occupandosene in maniera preponderante, lo studio delle «segnature» non si limitava alle piante medicinali, catalogandole negli erbari, ma poteva estendersi a tutti i contesti naturali di interesse enciclopedico, anche a bestiari e lapidari in cui rispettivamente venivano descritte le virtù di animali e minerali.
Secondo il pensiero medievale, infatti, tutto nel creato reca un'impronta, una «firma» incisa da Dio che ne è l'autore, acquisendo significato alla luce della cosmogonia rappresentata nella Genesi. Ogni dato assurge a simbolo, ogni essere dell'universo, fatto secondo la dottrina cristiana per servire l'uomo, ha un valore intrinseco portando scritta su di sé la propria funzione spirituale risanante: la sua sola esistenza dimostra quello che è, e quale sia il suo scopo, da decifrare con la semplice osservazione scevra da pregiudizi.

Dal Rinascimento all'età moderna
La dottrina delle segnature fu ripresa ed esplicitamente teorizzata nel Rinascimento da autori come Cornelio Agrippa (1486–1535), Otto Brunfels (1488-1534), Leonhart Fuchs (1501-1566), Nicholas Culpeper (1616-1654), e in particolare Oswald Croll (1560-1609) con il suo Tractatus de signaturis.

Paracelso
La figura dominante di questo periodo rimane comunque quella di Paracelso (1493-1541), profondamente cristiano, ma anche erudito in tradizioni alchemiche, pensiero greco e mitologia germanica. Opponendosi alla logica di Aristotele e alla medicina di Galeno, che intese rifondare su basi chimiche sviluppando la cosiddetta «iatrochimica», egli sostenne espressamente la dottrina delle segnature, affermando come «tutto ciò che la natura dà alla luce, si forma secondo l'essenza della virtù inerente ad essa».
L'aspetto esteriore è quindi l'espressione perfetta e inseparabile di una funzione interiore. Le piante di lattice ad esempio sono tali in quanto aumentano il latte nelle donne o il potere seminale negli uomini; le piante carnose o crassulanti, specie se cresciute in ambienti aridi o rocciosi, hanno la capacità di rimettere in carne gli emaciati; le piante con foglie a forma di cuore, polmone o fegato curano le malattie corrispondenti a questi organi, e così via.
Secondo Paracelso, questo potere delle piante risiede in un'essenza vitale che egli chiama «Archeo» o arcano, forza spirituale da intendere come il respiro di Dio o anche «quintessenza», letteralmente ciò che si ottiene dopo una distillazione o una sublimazione ripetute cinque volte; le forme secche delle piante invece rappresentavano per lui soltanto la materia inerte.
Poiché la malattia per Paracelso è il risultato di una forza maligna che attacca dall'esterno gli Archei di un organo, il trattamento mirerà a ripristinare l'essenza malata con la somministrazione di un arcano della stessa tipologia di quello colpito. A differenza del principio contraria contrariis curantur («i contrari vengono curati con i contrari») la guarigione paracelsiana avviene per effetto di un'azione simile al morbo: similia similibus curantur («i simili si curino coi simili»). Un male causato da un veleno deve essere trattato cioè da un veleno affine, convertito in medicamento tramite preparazioni alchemiche: la differenza tra rimedio e veleno risiede unicamente nella preparazione e nel dosaggio. In tal modo egli fece da precursore della moderna omeopatia, affermando:
«Nessuna malattia può guarire per contrapposizione, ma solo grazie al suo simile.»
(Paracelso)

Giambattista Della Porta
Alla fine del Cinquecento la dottrina delle segnature raggiunse infine la sua massima formulazione con la Fitognomica di Giovambattista Della Porta (1535–1615), autore di una sorta di «fisiognomica» delle piante, da lui messe in parallelo con le caratteristiche del corpo umano, e le cui fenomenologie sono chiavi indicative o «firme» delle loro proprietà medicamentose. In questa sua opera del 1588 (Phytognomonica) Della Porta indagò a lungo la vasta rete di corrispondenze segrete e simpatie occulte che intrecciano il mondo, e collegano non solo piante e uomini, ma anche minerali, animali, uomini, luoghi, stagioni, astri.
Gli elementi del regno vegetale compongono per Della Porta un sistema di segni visivi che consente al medico di individuare i rimedi più appropriati a seconda in particolare della loro localizzazione geografica: una determinata regione in cui si verifica una specifica malattia ospiterà la crescita delle piante più idonee a debellarla.

Ulteriori sviluppi
Dopo il XVI secolo, con l'emergere di un'impostazione sempre più materialistica nella filosofia della natura, la dottrina delle segnature conoscerà un progressivo declino, ad eccezione di voci isolate come quella di Jakob Boehme (1575–1624) che nel 1621 scrisse il trattato De Signatura Rerum, o di William Coles.
Agli inizi dell'Ottocento le segnature furono in parte riscoperte da Samuel Hahnemann, che tuttavia le mise in relazione con i sintomi delle malattie anziché con le forme fisiche del corpo umano, ponendo il criterio della similitudine a fondamento della sua nuova medicina detta perciò «omeopatica», essendo basata sulla legge di analogia tra potere tossico e potere curativo della stessa sostanza.
La dottrina delle segnature venne infine rivalutata nel Novecento da Edward Bach, scopritore degli omonimi fiori, che attraverso la chiaroveggenza abbinò i suoi trentotto rimedi floreali ad altrettante disarmonie della personalità umana, sulla base della somiglianza tra le caratteristiche morfologiche delle piante e gli stati d'animo squilibrati.

Esempi di segnature
Di seguito alcuni fra i numerosi esempi di segnature delle piante ricorrenti in erboristeria:
  • asplenio (Asplenium trichomanes), usato nei trattamenti della milza;
  • celidonia (Chelidonium majus), usata nel trattamento dell'ittero, a causa del colore del suo lattice;
  • dentaria (Cardamine bulbifera), così chiamata per lenire il mal di denti;
  • erba saetta (Sagittaria sagittifolia), così chiamata perché le sue foglie a forma di freccia si riteneva potessero applicarsi alle ferite di quest'arma;
  • fiordaliso (Centaurea cyanus), il cui colore azzurro veniva indicato per le affezioni degli occhi blu;
  • le epatiche, comprendenti le Marchantiophyta o l'erba trinità (Hepatica nobilis), usate per i problemi al fegato;
  • euphrasia, per i disturbi degli occhi;
  • polmonaria (Pulmonaria officinalis), usata nelle affezioni dei polmoni;
  • salvastrella o pimpinella (Sanguisorba officinalis), a cui erano attribuite proprietà emostatiche, per il suo colore rosso ritenuto capace di assorbire il sangue, da cui il suo nome;
  • stregona dei boschi (Stachys sylvatica), a cui sono attribuite qualità antisettiche;
  • ranuncolo favagello (Ranunculus ficaria), la cui radice rossa veniva utilizzata contro le malattie del sangue, emorroidi, vene ipertrofiche, e così via;
  • viperina azzurra (Echium vulgare), impiegata per curare i morsi di serpente, perché i suoi semi presentano una certa somiglianza con la testa di una vipera.
Nomenclatura
Le nomenclature adoperate per le segnature rivelavano in genere l'uso, o l'organo del corpo, a cui erano destinate.
Uno dei dibattiti in voga durante il Medioevo e il Rinascimento riguardava in particolare il rapporto tra linguaggio e realtà, ovvero se la parola sia semplicemente un segno arbitrario dell'ente a cui si riferisce, secondo la tradizione aristotelica, oppure se essa esprima e possieda l'essenza stessa dell'oggetto nominato, evocandone il potere, come sostenevano Plotino e i neoplatonici. In termini linguistici si trattava cioè della possibile divergenza, o viceversa dell'identificazione, tra il significato e il significante: nel pensiero magico e occulto una siffatta distinzione non esiste, essendo le parole ritenute equivalenti ai contenuti, potendo persino sostituirli.
Un nome in tal caso avrebbe efficacia da sé, ad esempio l'ematite, ritenuta in grado di fermare le emorragie, avrebbe sortito i suoi effetti semplicemente nominandola, per via della forza ispiratrice della sua radice etimologica.[9] La dottrina delle segnature poteva acquisire così, soprattutto in Paracelso, la possibilità di accedere non solo a un sistema di corrispondenze del simile col simile, ma di spingersi fino a una sorta di fusione cosmica: dove i logici vedevano semplicemente un nesso di analogia, i paracelsiani intuivano un principio di identità entro un gioco di rimandi dalle potenzialità infinite.
Le varie terminologie delle segnature usate all'incirca fino al XVIII secolo, quali «coda di volpe», «erba del diavolo», «zampa di allodola», «zoccolo di Venere», «barba di Giove», «dente di leone», ecc. furono infine rimpiazzate da una nomenclatura meno suggestiva e da una classificazione razionale di cui si avvertiva l'esigenza a seguito dell'arrivo in Europa di nuove specie di piante, erbe e semi, provenienti dalle moderne esplorazioni geografiche.
Il sistema di Linneo venne incontro a questa esigenza, fornendo non solo un dizionario, ma anche una grammatica della botanica, in grado di rendere conto di tutte le varietà conosciute e sconosciute, con due sole parole latine composte da meno di 12 lettere ciascuna, che evitando l'eccesso di consonanti risuonassero armoniose all'udito. Linneo raggiunse l'obiettivo di riuscire a dedurre da una foglia o da un frutto l'intero albero o la pianta corrispondente, sebbene basando una tale capacità non più sulle virtù della magia popolare, ma sulla logica di un'«algebra floreale». Il suo successo restò tuttavia limitato all'ambito di una natura intesa come un insieme di specie fisse: l'avvento del darwinismo l'avrebbe rimesso in discussione.





sabato 5 febbraio 2022

Amuleto





Per amuleto si intende un qualunque oggetto utilizzato per superstizione, credendolo un "difensore" da mali o pericoli o per propiziarsi la fortuna.

Caratteristiche

L'etimologia della parola è incerta. Potrebbe derivare dal latino a-molior (allontanare, tener lungi), o dal greco amulon, un "specie di focaccia" che si soleva offrire sugli altari o sulle tombe per rendersi propizi gli dei e gli spiriti dei trapassati. Sinonimo di "amuleto" è anche la parola talismano, che deriva dal persiano telsaman (o tilsaman), "figura magica" o "oroscopo", che gli arabi presero dal greco telesmena, "completo", nome dato alle statue delle divinità pagane consacrate con operazioni di teurgia nel Basso Impero, che furono considerate come malefiche (nel XVI secolo si indicarono "talismani" i sacerdoti idolatri e i musulmani).
Gli amuleti includono: gemme o semplici pietre, statue, monete, illustrazioni, pendenti, anelli, piante, animali, ecc.; anche frasi pronunciate in alcune occasioni: per esempio vade retro Satana (dal latino, "va indietro, Satana", "indietreggia, Satana"), per cacciare il diavolo o la cattiva sorte. I primi amuleti utilizzati dagli uomini primitivi - per lo più cacciatori - venivano ricavati da ossa, denti o corna di animali, e davano al possessore un senso di sicurezza e fiducia nel proprio destino.

Gli amuleti nel mondo

Gli amuleti variano considerevolmente a seconda del loro periodo storico e posto d'origine. Tuttavia, nei vari tipi di società, gli oggetti religiosi vengono comunemente utilizzati come amuleti, siano questi la figura di un dio o semplicemente alcuni simboli che rappresentano le divinità (quali la croce per i cristiani o "l'occhio di Horus" per gli antichi Egizi). In Thailandia si può vedere la gente comune con più di un Buddha che pende dal collo; in Bolivia e in alcune zone dell'Argentina il dio Ekeko fornisce una "protezione standard", offrendogli almeno una banconota per ottenere fortuna e benessere.
Ogni segno zodiacale ha una gemma corrispondente che funge da amuleto, ma queste pietre variano secondo le differenti tradizioni.
Un'antica tradizione cinese insegna a catturare un grillo vivo e tenerlo in una scatola di vimini per attirare la buona sorte (questa tradizione si estende anche alle Filippine). Sempre in Cina si possono spargere le monete sul pavimento per "attirare" il denaro; il riso, inoltre, ha una reputazione come elemento portante di buona fortuna.
Controversie possono nascere per quanto riguarda le tartarughe e il cactus: alcuni li considerano favorevoli, mentre altri ritengono che siano ostacoli all'interno della casa.
Sin dal Medioevo, nella cultura occidentale, il pentagramma, o "stella a cinque punte" (il numero 5 rappresenta l'uomo, il microcosmo) è stato considerato come talismano per attirare soldi o amore, per proteggere contro l'invidia, la sfortuna o altre disgrazie. Anche il pentacolo (dal greco Panta, che significa tutto, universale e Kleos che significa azione gloriosa) è conosciuto come un "potente" amuleto, utilizzato nelle invocazioni e negli scongiuri contro gli spiriti. Altri simboli, come i "quadrati magici" o i segni cabalistici, sono stati utilizzati sia come segni positivi che negativi.
Per quanto riguarda la tradizione ebraica, l'uso di amuleti è molto interessante: in molti musei esistono esempi di amuleti dell'era di Salomone. Un amuleto poco conosciuto, ma molto utilizzato nella tradizione ebraica, è il kimiyah o "testo dell'angelo". Si tratta dei nomi degli angeli, o alcune frasi della Torah, scritte su pergamene quadrate da scrivani rabbinici. La pergamena è custodita in un contenitore d'argento ed è portata direttamente sul corpo. È impressionante notare quanto siano simili le tradizioni riguardo agli amuleti, tra ebrei e buddisti.
In Africa e nei Caraibi, credenze religiose come Vudù, Umbanda, Quimbanda e Santería utilizzano spesso disegni come amuleti; queste religioni, inoltre, tengono conto del colore della fiamma delle candele, perché ogni colore caratterizza un effetto differente dell'attrazione o della repulsione. Un'altra forma popolare di amuleto che ha le sue origini nel vudù haitiano e nell'hoodoo louisianese è il sacchettino talismanico (gris-gris o mojo).
Profumi ed essenze (come incenso, mirra, ecc.) sono utilizzati allo scopo di attrarre o respingere.
Le leggende popolari hanno spesso attribuito "poteri magici" a insoliti oggetti, come la placenta o il piede del coniglio; il possesso di questi oggetti rafforzava le abilità magiche dei loro proprietari.
In Europa centrale la gente credeva che l'aglio o un crocifisso tenesse lontani i vampiri.
Gli antichi egizi avevano molti amuleti che utilizzavano per occasioni e necessità differenti; spesso rappresentavano figura di un dio o l'Ankh, una croce ansata che rappresentava il simbolo della vita eterna, e l'Udjat, l'occhio di Horus simbolo di rigenerazione. Anche la figura dello scarabeo, rappresentante il dio Khepri, è diventata un comune amuleto, e anche nel mondo occidentale ha trovato molti "sostenitori". Molto diffusi erano anche lo shen e il Nodo di Iside.
Per gli antichi scandinavi, anglosassoni e tedeschi (ma anche per alcuni credenti neopagani) il simbolo runico Eoh protegge dalla malvagità e dalla stregoneria; in alcuni paesi il rune non-alfabetico, che rappresenta il martello di Thor, offre protezione contro i ladri.
Dagli antichi Celti deriva la credenza che il trovare un trifoglio con quattro foglie, sia segno di buona fortuna. Anche i coralli e il ferro di cavallo sono considerati dei portafortuna.
In India, il suono di piccole campane mosse dal vento o appese sopra porte o finestre, fanno fuggire gli spiriti maligni.
In Giappone i templi shintoisti preparano piccoli sacchetti di stoffa colorata chiamati omamori, dedicati alla protezione di molti aspetti della vita (amore, denaro, studio, eccetera).
Oltre a questo, nella città di Takayama sono diffusi i sarubobo.
Il buddismo ha un'antica tradizione di talismani. Nel secondo secolo dopo Cristo, i Greci hanno cominciato ad intagliare le immagini reali del Buddha che venivano vendute ai nativi dell'India. Nel primo periodo del buddismo, poco dopo la morte del Buddha nel 485, erano di uso comune amuleti con simboli buddisti (ad esempio le orme del Buddha).
Un altro aspetto degli amuleti si collega con la demonologia e l'idolatria del demonio: l'uso del crocifisso capovolto o del pentacolo invertito sono necessari per mettersi in comunicazione con i demoni.
I cristiani copti usavano tatuaggi come amuleti protettivi; i Tuareg li usano ancora, così come gli aborigeni canadesi, che portano il totem del loro clan tatuato sul corpo. La maggior parte dei laici buddisti tailandesi sono tatuati con immagini sacre buddiste, e anche i monaci utilizzano questa pratica di protezione spirituale. L'unica regola, come per i talismani e gli amuleti ebrei, è che tali simboli possono essere applicati soltanto alla parte superiore del corpo, fra la parte inferiore del collo ed il girovita.

 
Wordpress Theme by wpthemescreator .
Converted To Blogger Template by Anshul .