Heinrich Cornelius Agrippa di
Nettesheim (Colonia, 15 settembre 1486 – Grenoble, 18 febbraio
1535) è stato un alchimista, astrologo, esoterista e filosofo
tedesco.
Divenne medico personale di Luisa di
Savoia nonché storiografo di Carlo V; ritenuto principe dei maghi
neri e degli stregoni, riuscì tuttavia a sfuggire all'Inquisizione.
Il suo pensiero risiede essenzialmente nella sua opera più
importante, il De occulta philosophia, scritta nell'arco di
circa venti anni, dal 1510 al 1530: la filosofia occulta è la magia,
considerata «la vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta,
in una parola la perfezione e il compimento di tutte le scienze
naturali».
Biografia
Heinrich nacque il 15 settembre 1486 a
Colonia nella famiglia Cornelis. Il soprannome di Agrippa, derivato
dall'antico nome latino della sua città, Colonia Agrippina,
fu assunto dal padre e trasmesso ai figli. Col tempo, Heinrich
latinizzò il proprio cognome in Cornelius e, vantando dubbie
origini nobiliari, si fece chiamare Agrippa von Nettesheym,
dal nome di un villaggio presso Neuss, non lontano da Colonia.
Apprese le prime nozioni di astrologia
dal padre e studiò arti liberali nelle scuole di Colonia,
diplomandosi maestro di arti nel 1502. Intorno ai vent'anni andò a
Parigi per frequentarvi l'Università ed entrò a far parte di un
circolo di studenti, fondato da un italiano di nome Landolfo. Questo
gruppo si dedicava allo studio delle scienze ermetiche e, poiché
tale attività poteva dar luogo a sospetti e persecuzioni, il circolo
aveva tutte le caratteristiche di una società segreta, di cui
Agrippa, in virtù della sua grande erudizione, divenne ben presto il
personaggio più influente ed ascoltato.
Nel 1508, insieme a Landolfo, andò in
Spagna, mettendosi a servizio militare del re Ferdinando: dopo
qualche mese, guadagnato per i suoi meriti - così almeno egli
sostiene - il titolo di cavaliere, s'imbarcò da Valencia per
approdare, dopo un viaggio avventuroso, in Francia e stabilirsi alla
fine dell'anno ad Avignone. Di qui scrisse a Landolfo, che si trovava
a Lione:
« Dopo queste
terribili prove, non ci resta che ricercare i nostri amici per
rinnovare i sacramenti della nostra congiura e ristabilire
l'integrità della nostra associazione »
|
(Epistolae I, 8, 20 dicembre 1508) |
Landolfo gli rispose il 4 febbraio
1509, proponendogli l'affiliazione di un tedesco di Norimberga
residente a Lione, descritto come un «curioso indagatore degli
arcani della natura [...] lancialo dunque per provarlo nello spazio
e, portato sulle ali di Mercurio, vola dalle regioni dell'Austro a
quelle dell'Aquilone, prendi anche lo scettro di Giove [...] e
associalo nella nostra confraternita». Mercurio, o Ermes, è la
guida ai misteri, e il volo dall'Austro all'Aquilone è il passaggio
necessario all'iniziazione del profano.
Per questo motivo Agrippa si recò a
Lione, poi andò ad Autun e di qui a Dole, nella Franca Contea,
allora governata, con la Borgogna e i Paesi Bassi, da Margherita
d'Asburgo, zia di Carlo, il futuro imperatore allora giovanissimo e
ancora sotto tutela. A lei Agrippa dedicò il De nobilitate et
praeecelentia foeminei sexus (Nobiltà e preminenza del sesso
femminile) un trattatello, che verrà stampato venti anni dopo ad
Anversa, nel quale egli sostiene la superiorità della donna rispetto
all'uomo dal momento, afferma, che già il nome della prima donna,
Eva, che significa vita, è più nobile di quello di Adamo, che vuol
dire terra; anche l'esser stata creata dopo l'uomo è motivo di
maggior perfezione e il corpo femminile, secondo lui, galleggia in
acqua più facilmente. Inoltre la donna è più eloquente e più
giudiziosa tanto che «filosofi, matematici e dialettici, nelle loro
divinazioni e precognizioni sono spesso inferiori alle donne di
campagna e molte volte una semplice vecchietta ne sa più di un
medico».
Agrippa, nel tenere la sua declamazione
in lode del sesso femminile, aveva colto l'occasione per ribattere
davanti a tanto uditorio quanto espresso nel sesto capitolo del primo
libro del Malleus maleficarum - il manuale dell'Inquisizione
voluto e approvato da papa Innocenzo VIII appena venticinque anni
prima. Nel Malleus si afferma infatti che le donne, per via
del loro “intelletto inferiore”, sono per natura predisposte a
cedere alle tentazioni di Satana, argomentando con un'etimologia
falsa, secondo la quale la stessa parola “'femmina' viene da 'fede'
e 'meno' perché la donna ha sempre minor fede e la serba di meno”.
Citando le stesse fonti e gli stessi episodi dei due inquisitori
domenicani, ma dando delle medesime questioni (in particolare del
ruolo di Eva al momento del peccato originale) interpretazioni
diametralmente opposte, Agrippa aveva deciso di confutare l'opinione
teologica sull'inferiorità della donna. Egli vi opponeva una visione
ermetico-neoplatonica, secondo la quale “Fra tutte le creature non
v'è spettacolo così meraviglioso, né miracolo tanto riguardevole,
al punto che si dovrebbe essere ciechi per non vedere chiaramente che
Dio radunò tutta la bellezza di cui è capace l'intero universo e la
diede alla donna, acciò che ogni creatura abbia buone ragioni per
stupirsi di lei e riverirla ed amarla.”
Col difendere la dignità delle donne
egli inoltre aveva espresso la sua adesione a una corrente, avviata
circa un secolo prima, che a buon diritto si può definire
“femminista” ante litteram, di cui si trovano tracce in
Francia e alla corte di Borgogna (Christine de Pizan), ma anche in
Spagna (Juan Rodríguez del Padrón) e Italia, rivendicando per loro
i diritti all'istruzione e alla libera attività professionale,
ovvero alla conoscenza e all'indipendenza economica: “Ma prevalendo
la licenziosa tirannia degli uomini sulla giustizia divina e sulla
legge naturale, la libertà accordata alle donne è oggi loro
interdetta da leggi inique, soppressa dalla consuetudine e dalle
usanze e totalmente cancellata fin dall'educazione, perché la
femmina appena nata e nei primi anni di vita è tenuta in casa
nell'ozio, e, quasi che ella non sia adatta a più alte occupazioni,
non le è permesso nient'altro che badare all'ago e al filo; quando
sarà giunta all'età del matrimonio sarà affidata alla forza e alla
gelosia del marito, oppure sarà rinchiusa nella perpetua prigione di
un monastero di monache. Tutti gli uffici pubblici le sono proibiti
dalle leggi. Non le è concesso di intentare un'azione legale
malgrado sia prudentissima. Inoltre è esclusa dal giudicare, dagli
arbitrati, dall'adozione, dalla intercessione, dalla procura, dalla
tutela, dalla cura, dalle cause criminali e testamentarie. E pure le
è vietato di predicare la parola di Dio, il che è assolutamente
contrario alle scritture.”
Sempre nel 1509, fu invitato
dall'Università di Dole a commentare il De verbo mirifico del
Reuchlin, nel quale l'umanista di Pforzheim univa, secondo gli
insegnamenti ricevuti a Firenze, la tradizione cabalistica al
neoplatonismo cristiano. Fu così che l'eco delle lezioni tenute da
Agrippa pervenne fino al francescano Jean Catilenet, del vicino
convento di Gray, il quale da Gand, durante la Quaresima del 1510, lo
accusò di diffondere eresie giudaizzanti. Prudentemente, Agrippa
decise di lasciare Dole per l'Inghilterra, avendo forse ricevuto
dall'imperatore Massimiliano I un «incarico riservatissimo» da
svolgere presso il re Enrico VIII.
Egli si stabilì a Oxford, ospite
dell'umanista, amico di Erasmo, John Colet, allievo di Marsilio
Ficino e lettore nell'Università. Qui scrisse la sua risposta al
Catilenet, l'Henrici Cornelii Agrippae expostulatio super
expositione sua in libro De verbo mirifico, stampata nel 1529,
accusando il frate di non conoscere la scienza ebraica, e di aver
mancato di confrontarsi direttamente e «cristianamente» con lui.
In Inghilterra continuò anche a
lavorare alla sua De occulta philosophia, della quale aveva
già mandato in visione i primi due libri a Giovanni Tritemio, già
abate del monastero benedettino di Sponheim e ora a Würzburg,
accompagnandoli con una lettera nella quale si chiedeva perché mai
la magia
« così altamente
stimata dai filosofi antichi, venerata nell'antichità da sapienti
e poeti, era divenuta nei primi tempi della religione sospetta e
odiosa ai Padri della Chiesa ed era stata ben presto respinta dai
teologi, condannata dai sacri canoni e proscritta dalle leggi [
... ] l'unica causa è stata la depravazione dei tempi e degli
uomini, grazie alla quale pseudo-filosofi, maghi indegni di questo
nome, poterono introdurre esecrabili superstizioni e riti funesti
[ ... ]e infine pubblicare quella quantità di libri che da per
tutto circola e che va condannata, indegna del molto rispettabile
titolo di magia [ ... ] così, ho ritenuto che sarebbe stata opera
lodevole restaurare l'antica magia, la dottrina dei sapienti, dopo
averla purgata degli errori di empietà e averla costituita su
solide fondamenta »
|
(Epistolae,
I, 23)
|
Tritemio gli aveva risposto di stupirsi
«che tu, così giovane, abbia penetrato tali segreti, ignoti a tanti
uomini istruiti, e li abbia esposti non solo in modo chiaro e
preciso, ma anche con proprietà ed eleganza esortandolo a «dare
fieno al bove e zucchero al pappagallo», cioè a non divulgare a
tutti i risultati dei suoi studi, ma soltanto a chi fosse in grado di
comprenderli.
Agrippa, tornato per un breve periodo a
Colonia, nel 1511 partì per l'Italia, dove sarebbe rimasto sette
anni.
In Italia
Nell'Italia devastata dalle guerre che
vedevano protagonisti l'Impero, la Francia, il Papato e la Repubblica
di Venezia, Agrippa fu per qualche mese al servizio di Massimiliano
I. Quando Luigi XII indisse in settembre il concilio di Pisa, che
avrebbe dovuto riformare la Chiesa e deporre papa Giulio II, Agrippa
fu invitato dal cardinale Bernardino López de Carvajal, animatore
del concilio, a parteciparvi in qualità di teologo: è possibile che
egli abbia partecipato alla quarta sessione conciliare, tenutasi a
Milano nel gennaio 1512.
Passò poi a Pavia per continuare i
suoi studi, come testimonia una sua lettera del 30 aprile, in cui
loda ad un amico la scienza della cabala. Anche qui lo raggiunse la
guerra: il 30 giugno fu fatto prigioniero dagli svizzeri e condotto a
Milano, dove si riscattò. Seguirono una serie di viaggi: dopo il
ritorno in agosto a Pavia, passò in novembre a Casale, presso il
marchese Guglielmo IX poi, nel 1513 a Borgolavezzaro; nella primavera
del 1514 fu a Milano, poi a Roma e di qui a Brindisi, finché nel
1515 tornò ancora a Pavia, dove si sposò, ebbe un figlio e fu
nominato professore di quella prestigiosa Università. Vi commentò
il Pimandro, attribuito a Ermete Trismegisto, testo greco scoperto il
secolo precedente in Macedonia dal domenicano Leonardo da Pistoia e,
da lui portato in Italia, fu tradotto in latino da Marsilio Ficino
nel 1463. La nuova filosofia neoplatonica tendeva ad accordare
ermetismo e cristianesimo ed anche Agrippa non si sottrasse a questa
interpretazione.
Con la calata dei francesi, la guerra
si riaccese in Lombardia fino alla vittoria di Francesco I a
Melegnano nel settembre del 1515. Nuovamente Agrippa dovette fuggire
a Milano e ancora una volta i mercenari svizzeri gli saccheggiarono
la casa. Tornato a Pavia per riprendere la moglie e il figlio, con
loro si stabilì a Casale dove scrisse, dedicandoli al marchese del
Monferrato, il Dialogus de homine qui Dei imago est (Dialogo
sull'Uomo immagine di Dio) e il De triplice ratione cognoscendi
Deum, (I tre modi di conoscere Dio) che mandò a un certo
Agostino, suo amico, che gli rispose facendogli grandi lodi. I tre
modi di conoscere Dio secondo Agrippa sono: l'osservazione della
natura, la lettura degli scritti profetici e del Nuovo Testamento.
Egli definisce in particolare la Cabala Ebraica l'interpretazione
della Legge trasmessa oralmente da Dio a Mosè e da questi, ancora
oralmente, ad altri settanta saggi i quali a loro volta l'avrebbero
ripetuta ad altri sapienti: dalla Cabala, che dunque costituisce la
vera tradizione esoterica, si può pertanto risalire alla completa
conoscenza di tutte le cose, naturali e divine.
La «strega» di Woippy
Partì nel febbraio 1517 per Torino,
ove fu lettore di teologia all'Università e nel maggio si trasferì
a Chambéry per assumere la carica di medico del duca Carlo II di
Savoia, che lasciò tuttavia il 16 gennaio 1518, avendo accettato
l'offerta di consigliere fattagli dalla città di Metz, dove entrò
in rapporto con altri cultori dell'ermetismo, come Claude Chansonnet
- latinizzato in Claudius Cantiuncula - o il celestino Claude
Dieudonné, ma si fece anche dei pericolosi nemici: l'occasione fu il
caso di una donna del vicino paese di Woippy, fatta imprigionare da
un gruppo di contadini con l'accusa di stregoneria.
La ragazza era stata rapita dagli
sgherri degli inquisitori francescani che volevano soddisfare con lei
la loro lussuria: “Al principio dell'affare - scrive Agrippa in una
lettera al suo amico Cantiuncula - un branco ignobile di contadini
congiurati contro di lei ne invase la casa nel mezzo della notte.
Questi depravati ubriachi di vino e di concupiscenza s'impadronirono
della sventurata e di loro privata autorità, senza alcun diritto,
senza mandato giudiziario, la gettarono nelle segrete di un loro
palazzo. Ciononostante i signori del capitolo la fecero condurre a
Metz e la consegnarono nelle mani del loro giudice ordinario,
l'ufficiale della curia episcopale. Venne stabilito un termine entro
cui i contadini motivassero le loro azioni e queste canaglie ebbero
l'audacia di denunciarla. In soli due giorni tanto poté prevalere
l'iniquità degli inquisitori e della banda di poco di buono che
l'ufficiale che l'aveva in custodia la consegnò per alcuni fiorini
nelle mani dei suoi accusatori, la denuncia di quattro dei quali era
già stata respinta in quanto noti delinquenti. La poveretta fu
allora trasferita con l'aggiunta di insulti e bastonate, come si poté
provare con testimoni. Così, detenuta in un carcere più che
ingiusto, prostrata dalle molte ingiurie, non trascorse neppure una
notte tranquilla, con gli accusatori liberi di godersela col vino e
nell'orgia."
Agrippa prese le difese della donna e
narrò lui stesso l'episodio nelle sue lettere. L'inquisitore, il
domenicano Nicola Savini, e l'ufficiale della curia vescovile, Jean
Léonard, la fecero torturare, ma «quale motivo allega
quest'inquisitore senza pietà per martirizzare così quella
disgraziata? Quale prova dà egli che questa donna sia realmente una
strega? Dice che sua madre è stata bruciata come strega; e io gli
dico in faccia che i fatti degli altri non hanno valore contro un
accusato [...] pretende che le streghe hanno l'abitudine di
consacrare il frutto del loro ventre al diavolo e che, d'altra parte,
siccome ordinariamente esse si danno al diavolo, questi è certamente
il padre dei suoi figli ai quali trasmette la sua malizia».
E rivolgendosi all'inquisitore: «Con
la tua perversa dottrina, tu misconosci la virtù del battesimo [...]
tu, inquisitore della fede, con tutti i tuoi argomenti, non sei che
un eretico». Il Savini, a sua volta, accusò di eresia l'Agrippa: la
morte dell'ufficiale della curia, che fece in tempo a rilasciare una
dichiarazione giurata con la quale riconosceva l'innocenza della
donna, pose fine al processo.
Una nuova violenta polemica vide però
coinvolto Agrippa. Egli prese le difese dell'umanista evangelico
Jacques Lefèvre d'Étaples, che sosteneva che sant'Anna avesse avuto
una sola figlia, Maria, e non tre, come sostenuto dalla Chiesa.
Additato come eretico a tutta la città dal priore domenicano Claudio
Salini, professore alla Sorbona, il 25 gennaio 1520 egli preferì
lasciare Metz e fare ritorno a Colonia.
Medico di corte
Non rimase a lungo a Colonia: nella
primavera del 1521 si mise nuovamente in viaggio con la famiglia, e
proprio a Metz morì sua moglie. Agrippa e il piccolo figlio andarono
a Ginevra, dove si risposò in settembre con la diciottenne Jana
Luisa Tissie, che gli darà sei figli. Nel 1522 divenne direttore
dell'ospedale ginevrino ma già nel 1523 decise di trasferirsi a
Friburgo, assunto come medico dai governatori di quella città. La
sua inquietudine o forse la necessità di guadagnare il necessario
per continuare i suoi studi preferiti, lo spinsero ancora a un nuovo
trasferimento: nel febbraio 1524 lasciò Friburgo per Lione.
In questa città, una delle più
moderne, attive, ricche e colte della Francia, si era allora
stabilito Francesco I con tutta la corte, impegnato com'era nelle
guerre combattute nella vicina Italia. In agosto Agrippa divenne
medico della regina madre, Luisa di Savoia, che dovette prendersi
cura degli affari dello Stato dopo la sconfitta di Pavia e la
prigionia del figlio, tornando a Parigi. Sono anni nei quali
l'interesse e la fede nel'astrologia sono al culmine: Agrippa - che
non credeva nell'astrologia, come scrisse nel De incertitudine et
vanitate scientiarum, composto in quell'anno - faceva anche
oroscopi all'unico scopo di guadagnare qualcosa ma, quando Luisa gli
chiese un oroscopo per il figlio, rifiutò. Ne scrisse anche in
lettere nelle quali si lamentava della superstizione della regina
che, venuta a conoscenza del loro contenuto, lo licenziò
nell'ottobre del 1526. Lo scrive all'amico Giovanni Capellane:
« Mi sono ricordato quanto è scritto nelle sacre scritture: non fidatevi dei principi; ho letto nei filosofi: non c'è da fidarsi delle donne; a scuola imparai da Virgilio: varium et mutabile semper foemina. E io, doppiamente stolto, dimentico degli avvertimenti umani e divini, mi sono fidato da chi è insieme principe e donna » |
(Lione, ottobre
1526)
|
Predisse però grandi successi al duca
di Borbone, comandante dell'esercito imperiale, sperando certamente
di ingraziarselo e di farsi assegnare qualche importante incarico,
ora che la sua situazione economica era divenuta precaria. E la sua
sfiducia nell'astrologia si rivelò in buona parte fondata, dal
momento che il duca ebbe sì successo ma lasciò la vita nell'assedio
di Castel Sant'Angelo a Roma.
Non avendo più motivo di rimanere a
Lione, Agrippa cercò una nuova sistemazione. Con l'aiuto finanziario
del banchiere e commerciante genovese Agostino Fornari, che aveva
affari a Lione e ad Anversa, nel dicembre 1527 Agrippa, passando per
Parigi, raggiunse la città fiamminga nel luglio 1528.
Ad Anversa continuò ad esercitare la
libera professione medica: quando nella città, nell'agosto del 1529,
scoppiò l'epidemia di peste nella quale morì sua moglie, egli si
prodigò nella cura dei malati, diversamente dalla maggior parte
degli altri medici, che si erano allontanati in fretta alle prime
avvisaglie del morbo. Finita l'epidemia, tornarono e accusarono un
certo Jesn Thibault di aver esercitato abusivamente la professione.
Agrippa lo difese: «Si sono visti questi dottori scappare e
abbandonare la popolazione senza curarsi dei giuramenti prestati
nelle mani dei magistrati e degli obblighi contratti ricevendo lo
stipendio dello Stato, mentre Jean Thibault e alcuni altri si
prodigavano coraggiosamente per la salvezza della città. E ora
questi medici scolastici, questi dottori sesquipedali, vorrebbero
ingarbugliare con i loro sofismi, disputando sulla nostra salute e la
nostra vita a forza di sillogismi cornuti».
Ad Anversa aveva fatto pubblicare gli
scritti già composti anni prima, con l'aggiunta della Dehortatio
gentilis theologiae, del De originali peccato e del
Regimen adversus pestilentiam: ora, in rotta con i maggiorenti
della città in cui si trovava a vivere, pensò ancora una volta a un
trasferimento: accettò l'offerta di Margherita d'Asburgo di
consigliere, archivista e storiografo dell'imperatore e, ai primi del
1530, prese possesso del nuovo incarico a Malines, allora capitale
dei Paesi Bassi e sede del governo.
Storiografo imperiale
Qui si sposa per la terza volta e onora
l'incarico ricevuto facendo pubblicare nel 1530 ad Anversa la sua
Caroli V coronationis historia, che celebra l'incoronazione di
Carlo V avvenuta a Bologna quello stesso anno per mano del papa
Clemente VII e, soprattutto, le sue opere maggiori, il De
incertitudine et vanitate scientiarum et artium et excellentia Verbi
Dei declamatio in settembre, e il primo libro del De occulta
philosophia l'anno seguente, tutte munite di privilegio
imperiale, accordato anche ai Commenti a Raimondo Lullo e alle
Orationes er Epistolae, che garantiva ad Agrippa la
possibilità di stampare quelle opere per altri sei anni,
salvaguardando i suoi diritti e soprattutto, fornendogli un
importante riparo contro possibili attacchi polemici e censure.
Il De incertitudine
« Mi aspetto i più
fieri attacchi, sorde macchinazioni e ingiurie. Grammatici, poeti,
matematici, astrologi, indovini, filosofi, impiegheranno tutti le
loro armi contro di me. I papi onnipotenti mi danneranno
all'inferno [ ... ] il teologo mi condannerà per eresia e vorrà
obbligarmi ad adorare i suoi idoli [ ... ] ma io mi proteggo con
la parola di Dio »
|
(Agrippa, De
incertitudine et vanitate scientiarum et artium,
prefazione)
|
E infatti l'opera è un attacco contro
tutte le scienze, o quelle che tali erano reputate, e contro il
clero: secondo Agrippa si fanno monaci i ribaldi per sfuggire alla
giustizia, gli avventurieri che hanno perduto il loro patrimonio, i
poltroni per guadagnarsi da vivere senza essere costretti a lavorare:
«securi da tutti i pericoli del mondo et dalle molestie civili,
mangiano il pane ozioso et furfantuoso in cambio di quello che si
acquista colle fatiche, dormendo agiatamente e senza pensieri; et
credono che questa sia povertà evangelica, vivere in ozio et
furfanteria delle fatiche altrui».
E non solo: essi frequentano prostitute
che «s'hanno talora mantenuto nei monasteri sotto cocolla di monaco
e vestimenta di uomo» quando non vivono con concubine: «un vescovo,
durante un convito s'è vantato di avere sotto la sua giurisdizione
undicimila sacerdoti viventi in concubinaggio, da cui ogni anno
ricavava un bel gruzzoletto d'oro».
Il De incertitudine contiene
anche un attacco contro le «scienze segrete» - alchimia,
astrologia, geomanzia, magia - e rappresenterebbe perciò una
ritrattazione del De occulta philosophia, del quale era già
stato pubblicato l'anno precedente il primo libro, e in generale
degli interessi che pure egli aveva così a lungo coltivati, In
realtà egli attaccava i cattivi cultori che degradavano le
discipline ermetiche - come si è visto nella sua lettera al Tritemio
- e insieme, probabilmente, fingeva di essere estraneo a interessi
pericolosi per la sua reputazione: infatti, nella realtà, continuò
a occuparsi di «scienze occulte», fino a pubblicare l'edizione
definitiva del De occulta philosophia nel luglio del 1533 a
Colonia.
Il De incertitudine fu
condannato al rogo dai teologi della Sorbona il 2 marzo 1531 e
l'Università di Lovanio considerò empie 43 proposizioni. Oltre a
censurare le sue insinuazioni contro i costumi ecclesiastici e a
considerare sospetta la sua definizione di Lutero come invictus
haereticus e l'attribuzione al diavolo dell'invenzione del
cappuccio dei frati, furono considerate senz'altro eretiche la sua
condanna della venerazione delle immagini e delle cerimonie
religiose, la svalutazione dei profeti e degli evangelisti, il suo
scetticismo sull'utilità della teologia che pretenderebbe di
definire Dio e, in generale, sull'utilizzo delle scienze per
giustificare la religione.
Contro di lui fu sollecitato
l'intervento dell'imperatore e Agrippa, non ricevendo da tempo il suo
stipendio di storiografo, finì in prigione per debiti. Liberato,
sfuggì ai creditori tornando a Colonia dove - malgrado tutto quello
che aveva scritto contro il clero - poteva godere della protezione di
tre cardinali: l'arcivescovo di Colonia Hermann von Wied, quello di
Liegi Eberhard von der Mark e il legato pontificio Lorenzo Campeggi,
nella cui casa stessa si accinse a scrivere la propria Apologia
- dedicata al Campeggi - contro le accuse dell'Università fiamminga.
In essa ribadisce, appoggiandosi alla
tesi del Cusano della «dotta ignoranza», che scienza e arte sono
inutili anzi, persino fuorvianti, come sostiene lo stesso Agostino e
il cristianesimo platonizzante, a una retta comprensione di Dio.
Agrippa fece seguire l'Apologia adversus calumnias da una
analoga Querela super calumnia che fece pubblicare in un unico
volume a Colonia nel 1533. Nel novembre del 1532 si trasferì a Bonn
da dove chiese per lettera un giudizio sul suo libro a Erasmo il
quale, prudentemente non si espresse, ma volle dargli un utile
consiglio:
« Ricordati di Louis de Berguin, uomo certamente di costumi discutibili, ma che si è perduto a causa dei suoi avventati attacchi contro monaci e teologi. Cosa non ho fatto per trattenerlo! Gli dissi che con questa gente perfino san Paolo avrebbe torto [ ... ] se proprio non puoi evitare di combatterli, cerca almeno di stare dalla parte della forza. Non metterti nelle loro mani e, soprattutto, non mi mischiare in quest'affare » |
(21 aprile 1533, Epistolae, VII, 40) |
Agrippa non volle dargli retta: come
scrisse all'amico Chansonnet, «sono determinato a combattere senza
tregua contro questo nugolo di sofisti e cappuccioni. Li dipingerò
per quello che sono veramente al popolo che essi ingannano».
Agrippa e la Riforma protestante
L'agitazione religiosa prodotta dalle
nuove idee riformate aveva investito anche Colonia e nel 1529 due
«eretici» luterani, Peter Fliesteden e Adolf Clarenbach, erano
stati bruciati sul rogo e lo stesso arcivescovo della città, Hermann
von Wied, finì per passare alla Riforma protestante. Agrippa non
prese pubblicamente posizione, non si sa se fu soltanto per prudenza
o perché, come sembra più probabile, egli non aderisse alla
Riforma, in quanto la sua visione della religione restava lontana da
entrambe le confessioni cristiane.
Agrippa ebbe parole di ammirazione per
Lutero già nel De incertitudine, che ribadì ancora a
Melantone, quando scrisse da Francoforte, nel settembre del 1532, di
salutargli Lutero «il grande eretico invitto, che come dice Paolo
negli Atti, serve Dio secondo la setta che chiamano eresia». Si
tratta di una stima riservata a un combattente coraggioso che non si
estende necessariamente alle idee da lui professate e del resto
Calvino non mancherà di condannare Agrippa, nel suo Traité des
scandales (1550), rimarcando la distanza che lo poneva dalle
confessioni riformate.
In questi ultimi anni è con lui, a
Bonn, il giovanissimo Johann Wier, il discepolo che ne continuerà
l'opera e ne difenderà la memoria. Ai primi del 1535 Agrippa si recò
a Lione ma vi fu presto imprigionato, non si sa se per le vecchie
accuse di aver diffamato la madre di Francesco I, Luisa di Savoia, o
a conseguenza della condanna al rogo del suo De incertitudine,
emessa dai teologi della Sorbona il 2 marzo di quello stesso anno.
Rimesso tuttavia in libertà, pensò bene di allontanarsi dalla
città, stabilendosi a Grenoble, dove morì pochi mesi dopo. Fu
sepolto nella chiesa domenicana della città ma il fanatismo connesso
alle guerre di religione che imperversarono a lungo in Francia non
risparmiarono la sua tomba e i suoi resti andarono dispersi.
La pubblicazione del De occulta philosophia
Dedicato all'arcivescovo von Wied, il
primo libro dell'opera fu pubblicato contemporaneamente ad Anversa e
a Parigi nel 1531, con una prefazione nella quale ritrattava l'opera
che pure pubblicava, Agrippa giustificava questa contraddizione
sostenendo che, iniziata da giovane e interrotta, «ne circolavano
copie corrotte [ ... ] non solo, ma alcuni, non so se più impazienti
che impudenti, volevano stampare un libro così informe. Unicamente
per evitare questo guaio, ho deciso di pubblicarlo io stesso»,
aggiungendo che non era «un delitto non lasciar morire questo frutto
della mia giovinezza».
Questa giustificazione non persuade,
apparendo un metter le mani avanti nel caso - molto probabile - che
avesse provocato polemiche e anche persecuzioni, tanto più che
Agrippa, nel novembre del 1532 consegnò all'editore Hetorpio e al
tipografo di Colonia Jean Soter il secondo e soprattutto il terzo
libro dell'opera, che egli aveva da poco concluso e che non era mai
circolato in precedenza. E meno ancora persuade, osservando la
reazione di Agrippa alla notizia che l'inquisitore di Colonia, Conrad
von Ulm, il 1º gennaio del 1533, aveva proibito la stampa
dell'opera. L'11 gennaio, da Bonn, Agrippa indirizzò la sua protesta
ai magistrati di Colonia:
« Non lasciatevi impressionare da una falsa interpretazione della parola magia, spaventevole solo per il volgo, e su cui questi ipocriti sicofanti stanno imbastendo accuse di bestemmia e di eresia. Il mio libro non ha niente a che fare con la fede cristiana e con le sacre scritture e, come sapete, solo opponendosi a queste si può peccare. Altrimenti, condannate tutto quel che non è fede e Vangelo [ ... ] I vostri teosofisti lascino stare quel che non li riguarda e non sono in grado di capire » |
(Epistolae,
VII, 26)
|
Finalmente, superate le difficoltà,
l'Henrici Cornelii Agrippae ab Nettesheym a consiliis et archivis
indiciarii sacrae Caesareae majestatis de Occulta Philosophia libri
tres. Nihil est opertum quod non reveletur et occultum quod non
sciatur. Matthaei X. Cum gratia et privilegio Caesareae majestatis ad
triennium, comparve nel luglio 1533.
L'apocrifo del quarto libro
Nel 1559, a Marburgo, comparve l'edizione di un quarto libro del De
occulta philosophia[17],
ovvero un De Caerimonjis Magicis, trattato di magia
cerimoniale, che Johann Wier, allievo di Agrippa a lui molto vicino,
riconobbe come un falso e che come tale è considerato tuttora, in
virtù dell'analisi del suo contenuto e dello stile, lontano dal
latino letterario di Agrippa (il libro è stato spesso pubblicato
insieme ai Magica elementa, un testo di magia bianca scritto da
Pietro d'Abano. Per questo è frequente che i due testi vengano
associati nelle menzioni di XVI e XVII secolo). Il contenuto di
questo testo spurio, che nelle traduzioni italiane viene tramandato
come libro
del comando, consiste in un'iniziazione alla magia cerimoniale e
all'evocazione degli spiriti.
La magia
La Filosofia occulta è la
Magia. Già nei primi due capitoli del I libro dell'opera,
intitolato La magia naturale, Agrippa stabilisce l'intento
dell'opera: premesso che esistono tre mondi, l"Elementare"',
il '"Celeste"'e l"Intellettuale"',
investigati rispettivamente da tre scienze, la Fisica o Magia
naturale - che svela l'essenza delle cose terrene - la Matematica
o Magia celeste - che fa comprendere il moto dei corpi celesti
- e la Teologia o Magia cerimoniale - che fa
comprendere «Dio, la mente, gli angeli, le intelligenze, i demoni,
l'anima, il pensiero, la religione, i sacramenti, le cerimonie, i
templi, le feste e i misteri [ ... ]
La Magia racchiude queste tre scienze traducendole in atto.
Essa è «la vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta [ ...
] il compimento di tutte le scienze naturali»: essa è dunque la
scienza integrale della natura, tanto fisica che metafisica, e
l'espressione equivalente di «Filosofia occulta» indica tanto la
sua natura di scienza - la filosofia è la scienza di tutte le cose,
materiali e spirituali - quanto il fatto che tale scienza è
riservata a pochi, è sapienza esoterica ma può essere appresa:
« Coloro che vorranno
dedicarsi allo studio della Magia, dovranno conoscere a fondo la
Fisica, che rivela la proprietà delle cose e le loro virtù
occulte; dovranno essere dotti in Matematica, per scrutare gli
aspetti e le immagini degli astri, da cui traggono origine le
proprietà e le virtù delle cose più elevate; e infine dovranno
intendere bene la Teologia, che dà la conoscenza delle sostanze
immateriali che governano tutte queste cose. Perché non vi può
essere alcuna opera perfetta di Magia, e neppure di vera Magia,
che non racchiuda queste tre facoltà »
|
(De occulta
philosophia, I, 2.)
|
Libro I
I quattro elementi costituiscono tutte le cose, materiali e spirituali
Gli elementi che costituiscono tutte le
cose «terrene» sono quattro, sostiene Agrippa, seguendo le
conoscenze del tempo: fuoco, terra, acqua e aria, nessuno dei quali
si trova in natura allo stato puro. Due sono le qualità specifiche
di ogni elemento, delle quali una è propria dell'elemento, l'altra è
invece condivisa con un altro: «il fuoco è caldo e secco, la terra
è secca e fredda, l'acqua è fredda e umida e l'aria è umida e
calda». L'opposizione delle qualità rende opposti fra loro, a due a
due, gli elementi: così, sono opposti il fuoco e l'acqua, e la terra
e l'aria.
Agrippa, tuttavia, seguendo Platone,
individua altre sei qualità, assegnandone tre a ciascun elemento:
chiarezza, rarefazione e movimento al fuoco, e oscurità, densità e
immobilità alla terra; l'aria ha due qualità comuni col fuoco,
rarefazione e movimento, e una con la terra, l'oscurità, mentre
l'acqua assume due qualità dalla terra, oscurità e densità, e una
dal fuoco, il movimento. Tali qualità sono presenti in grado diverso
nei quattro elementi e «chiunque conoscerà le proprietà degli
elementi e le loro mescolanze, potrà agevolmente operare prodigi ed
eccellere nella Magia naturale».
Agrippa distingue gli elementi in tre
ordini: al primo ordine appartengono gli elementi puri, cioè non
composti, non trasmutabili, non mescolabili e incorruttibili. Al
secondo, gli elementi composti e impuri che, quando sono ridotti a
purezza, «la loro virtù è sopra ogni cosa». Al terzo ordine
appartengono elementi «decomposti, dissimili, provvisti di ogni
sorta di qualità, che possono cambiarsi reciprocamente l'uno
nell'altro [ ... ] pochi ne intendono i profondi misteri [ ... ]
attraverso di essi si possono operare meraviglie in tutte le cose
naturali, celesti e sovracelesti, nonché tanto nella Magia naturale
che in quella celeste [ ... ] si perviene a conoscere e a predire
l'avvenire e da essi discende lo sterminio dei cattivi demoni e la
conciliazione con gli spiriti buoni».
Come vi sono quattro elementi semplici,
così quattro sono i corpi da loro composti, ossia le pietre, i
metalli, le piante e gli animali. Seppure alla loro composizione
concorrano tutti gli elementi, nelle pietre prevale la terra, nei
metalli l'acqua, nelle piante l'aria mentre gli animali «traggono la
loro forza dal fuoco e l'origine dal cielo». Le singole qualità di
ciascun corpo derivano dalle qualità dei diversi elementi: così, la
trasparenza del quarzo deriva dall'acqua, le qualità del piombo
dalla terra e quelle dell'oro e del ferro dal fuoco. Negli esseri
viventi, la collera deriva dal fuoco, il sangue dall'aria, la bile
dalla terra e, secondo Agostino, l'intelletto è simile al fuoco, la
ragione all'aria, l'immaginazione all'acqua e il sentimento alla
terra.
Gli elementi non sono soltanto nelle
cose del nostro pianeta, «ma anche nei cieli, nelle stelle, nei
demoni, negli angeli e in Dio stesso, che è il creatore e
l'animatore di tutte le cose», con la differenza di «essere allo
stato di purezza e in tutta la loro potenza»: in particolare, di Dio
è detto che «la terra s'apra e generi il Salvatore» ed è chiamato
nelle Sacre Scritture sorgente di acqua viva e soffio vitale, mentre
Mosè e san Paolo dicono che egli è un fuoco divorante.
I poteri occulti delle cose
Oltre ai poteri derivati dagli elementi
alle cose, queste hanno poteri, per esempio di «neutralizzare
l'effetto di un veleno, di combattere gli antraci, di attirare il
ferro», derivanti dalla loro specie e forma, che si chiamano occulti
perché «le loro cause ci sfuggono e lo spirito umano non può
penetrarli. Perciò solo i filosofi hanno potuto, per lunga
esperienza più che per ragionamento, acquistarne una parziale
conoscenza». Esempi di poteri occulti sono il potere della Fenice di
rinascere dalle sue ceneri, i pesci che vivono sottoterra, menzionati
da Aristotele, le pietre che cantano, descritte da Pausania o le
salamandre che vivono nel fuoco.
I poteri occulti derivano alle cose
dalle idee - platonicamente intese come forme pure ed eterne - che
vengono infuse nelle cose dall'Anima del Mondo: la sua virtù si
comunica a tutte le cose cosicché «tutte le qualità occulte si
diffondono sulle erbe, sulle pietre, sui metalli e sugli animali
attraverso il sole, la luna, i pianeti e le stelle che sono superiori
ai pianeti. E tale spirito ci sarà tanto più utile, quanto più
sapremo separarlo dagli altri elementi e quanto meglio sapremo
servirci delle cose in cui sarà penetrato più abbondantemente». È
l'operazione tentata dagli alchimisti, che cercano di estrarre
dall'oro il suo spirito per infonderlo agli altri metalli, «come noi
abbiamo fatto e abbiamo visto fare, pur non potendo produrre una
quantità maggiore di oro da quella originaria».
Le cose inferiori sono sottoposte alle
superiori in un modo particolare, che fa sì che esse si ritrovino
nel cielo «in un modo celeste», e quelle celesti si trovino in
terra, «in un modo terrestre». Ciò che è in terra - pietre,
piante ed animali - riceve le sue proprietà dai pianeti e dalle
stelle; così, nell'uomo, anche gli organi sono variamente
influenzati dai corpi celesti: il cervello e il cuore dal Sole e
dall'Ariete, gli arti e la bocca da Mercurio, il fegato e il ventre
da Giove, i genitali da Venere e dallo Scorpione. Anche i caratteri e
gli umori sono influenzati: la tristezza da Saturno, l'ira da Marte,
la gioia da Giove, la sensualità da Venere. Nell'astrologia,
insomma, si può trovare la descrizione di tutti gl'influssi
esercitati dalle stelle sugli uomini e sulle loro vicende.
Gli influssi dei corpi celesti possono essere attratti mescolando
opportunamente le cose naturali che posseggano le qualità di quei
corpi, dal momento che una sola cosa non può comprendere tutti i
poteri di un astro. Una mescolanza sarà perfetta quando la riunione
e il dosaggio siano fatti in «concordanza col cielo sotto una data
costellazione» e in modo da ottenere un composto non facilmente
scindibile, simile alle pietre.
0 commenti:
Posta un commento