domenica 17 luglio 2022

La Bestia del Gévaudan: il “Mostro Antropofago” più Terrificante della Storia.

Le leggende riguardanti i licantropi, o lupi mannari, hanno caratterizzato buona parte dell’Europa Medioevale, ma le origini della Bestia del Gévaudan affondano le radici in un’epoca successiva, qualche anno prima della Rivoluzione Francese. La creatura, che fino ad oggi non è stata identificata con certezza, iniziò a terrorizzare il popolo di Gévaudan, una provincia del sud della Francia, nel 1764. Tutto iniziò quando una ragazza stava portando al pascolo le mucche e venne attaccata da una creatura “simile a un grosso lupo“, che tentò diverse volte di mangiare la donna, prima di essere allontanata dalle vacche.

La vaccara descrisse l’animale in modo discretamente dettagliato: Aveva orecchie piccole, una testa da cane, un corpo simile a un Lupo e la sua pelliccia era rossastra, ncon una lunga coda…



L’attacco sembrò un episodio a sé stante, ma dopo qualche giorno, il 30 Giugno del 1764, Janne Boulet, una quattordicenne del posto, venne uccisa dalla bestia, a poca distanza dal luogo del primo attacco. Della giovane furono trovati soltanto gli zoccoli e il cappellino. Il corpo era scomparso, interamente divorato dalla bestia. Durante tutta l’Estate gli attacchi continuarono, solitamente rivolti a donne e ragazzi, ma sporadicamente anche a uomini che viaggiavano in solitaria.


Gli abitanti dei villaggi iniziarono a sentirti oppressi, schiacciati dal terrore di diventare il nuovo piatto della Bestia…



La popolazione iniziò ad armarsi e cominciò la classica “caccia al lupo“, e vennero abbattuti decine di animali da parte degli abitanti della zona. Nonostante le uccisioni, gli attacchi non accennarono a diminuire. Decine di persone furono mangiate, spesso decapitate, da un animale che non sembrava aver altro scopo che l’assassinio di esseri umani.


Naturalmente, mano a mano che le morti aumentavano, le voci sulla natura della Bestia iniziarono a raggiungere standard da storia Horror. Chi diceva si trattasse di un licantropo, chi di un lupo enorme, chi ancora di un intero branco di lupi antropofagi. Anche la Chiesa fornì la propria interpretazione, immaginando un flagello divino mandato sulla terra a punire gli abitanti per i propri peccati.



Il Re di Francia, Luigi XV, venne rapidamente a conoscenza degli eventi, e offrì il proprio supporto affinché la Bestia venisse finalmente uccisa. Come contromisura mandò 56 Dragoni, uomini armati sia a cavallo sia a piedi, coadiuvati dai 400 volontari del Clermont, tutti comandati da Jean Boulanger Duhamel, il quale avvistò la Bestia più volte senza riuscire ad ucciderla.

Duhamel ebbe a dire: La Bestia è un ibrido mostruoso: assomiglia ad un Lupo ma è grande quanto un vitello.

Duhamel e il corpo di ricerca arriveranno a organizzare battute di caccia di dimensioni inaudite, e a cercare, con ogni strategemma, di uccidere l’animale che, sino a Marzo del 1765, aveva fatto 33 vittime accertate.

Il capitano tentò di tutto: Organizzò la più grande battuta di caccia della storia con 20.000 partecipanti, disseminò i boschi di cani avvelenati, sperando di uccidere “il mostro”, Travestì i suoi Dragoni da Donne nel tentativo di farli attaccare.

Il Re mise una taglia sulla testa della Bestia: 6000 livre, che sommate a quelle di vescovo e provincia arrivavano a 9400 livre: l’equivalente necessario a comprare 100 Cavalli.

A seguito degli insuccessi dei militari, Luigi XV inviò un nobile, Jean-Charles D’Enneval, che interpretò la caccia in modo molto diverso, decisamente più solitario. D’Enneval e Duhamel avrebbero dovuto collaborare ma, naturalmente, entrarono in aperto conflitto. Da Parigi arrivarono ordini perentori: il Capitano e i suoi Dragoni avevano fallito, dovevano rientrare immediatamente.

La prima azione registrata di D’Enneval fu del 13 Aprile 1765: una battuta di caccia con obiettivo una Lupa che sembrava corrispondere alla descrizione. L’animale venne ucciso, ma senz’altro non era la famosa Bestia mangiauomini.

Il 1° Maggio, il cacciatore e il suo seguito si appostarono nei pressi di Saint Alban, facendo spostare l’animale verso sud. Qui tre fratelli, la famiglia Marlet de la Chaumette, colpirono l’animale per ben due volte ma, incredibilmente, la Bestia non subì danni in punti vitali. Il giorno dopo, una ragazza di 32 anni sarà ritrovata divorata nei pressi di Pépinet de Venteuges.

Anche il Nobile cacciatore D’Enneval aveva fallito nella caccia. Venne sostituito da François Antoine, il Gran portatore di Archibugio del Re, accompagnato dal figlio e da 14 fra i più esperti guardacaccia reali. Gli uomini arriveranno a Clermont Ferrand a metà Giugno, andando ad abitare al castello di Besset.



L’11 Agosto del 1765 Marie Jeanne Valet, perpetua del parroco locale, venne aggredita insieme alla sorella nei pressi di un fiumiciattolo durante l’attraversamento. Grazie all’istinto di sopravvivenza, la donna riuscì a piantare nel petto della Bestia una Baionetta, che era stata consegnata a tutti gli abitanti come arma di difesa. L’animale compì diverse giravolte gridando dal dolore, per poi sparire nel bosco.

L’episodio ispirerà la statua di Philippe Kaeppelin. Fotografia di Szeder László condivisa con licenza Creative Commons


Il 28 Agosto le guardie di Antoine uccisero un lupo di dimensioni ragguardevoli nei boschi di Ténezère, ma nuovamente non si trattò della famosa bestia. Quasi un mese più tardi, il 20 Settembre, venne avvistato un lupo di dimensioni impressionanti, con una lupa ed i cuccioli. Antoine colse l’occasione per porre fine, almeno agli occhi del Re, alla caccia della Bestia del Gévaudan.

I suoi uomini uccisero l’enorme lupo, che venne imbalsamato e portato a corte. La caccia, almeno a livello istituzionale, era terminata, ed Antoine ne guadagnò tutti i meriti, in termini di prestigio ed economici. Fece ritorno a Parigi il 4 Novembre, dopo aver sterminato tutta la famiglia di lupi, in modo da assicurarsi che “il Flagello di Dio” non colpisse più, nemmeno coi suoi figli.

Il Lupo ucciso era alto 78 Centimetri e pesante poco meno di 60 chilogrammi.

L’11 Dicembre dello stesso anno la Bestia tornò a colpire, a Lorcières, uccidendo e mangiando una bambina di 11 anni. Antoine aveva sì ucciso un grosso lupo, ma non era certamente il mostro antropofago che tutti speravano.


La Bestia del Gévaudan continuò durante tutto il 1766 a mietere vittime, sino ad arrivare al Giugno del 1767. Durante questo periodo, quasi due anni, vennero organizzate numerose battute di caccia, ma a morire furono soltanto lupi “innocenti”. Il 19 Giugno di quell’anno Jean-Joseph de Chateauneuf Randon, Marchese del Gévaudan, organizzò una battuta con 12 uomini, e Jean Chastel, uno di loro, si trovò faccia a faccia con la Bestia, riuscendo finalmente ad ucciderla.

L’animale, con ogni probabilità davvero l’antropofago (o uno degli antropofagi) che aveva terrorizzato la zona nei tre anni precedenti, morì sotto i colpi del cacciatore, e gli attacchi terminarono. La bestia si avvicinò a Chastel senza attaccarlo, un particolare che si rivelerà importante per le successive ipotesi. Il colpo usato, vuole la leggenda, era un proiettile d’argento, circostanza che alimenterebbe le ipotesi sul mostro/licantropo.

La Mappa della Zona:


Le dimensioni dell’animale ucciso da Chastel erano considerevoli:

  • Lunghezza del corpo dalla radice della coda alla punta del muso: 99 Centimetri

  • Altezza: 76,8 Centimetri

  • Peso: non specificato

Chastel tentò di sfruttare economicamente l’uccisione, e si recò a Versailles con il cadavere dell’animale. Il Re Luigi XV però lo cacciò via in fretta, sostenendo che la Bestia del Gévaudan fosse stata uccisa 2 anni prima, dal fedele Antoine. Finì così, senza ulteriori battute di caccia né uccisioni, la storia di uno dei più terrificanti animali antropofagi della storia.

Il monumento a Jean Chastel. Fotografia condivisa con licenza Creative Commons


Quante persone furono uccise?

Secondo i registri francesi, le vittime accertate furono 136, ma probabilmente erano molte di più. Fu Luigi XV ad impedire di tenere il conto, e alcuni storici ipotizzano che potrebbero esser state uccise sino a 500 persone. Stime più realiste parlano di circa 200 persone uccise in tre anni.


Che animale era la Bestia?

Le ipotesi formulate da storici e criptozoologi (studiosi di animali nascosti) sono innumerevoli, assolutamente contrastanti fra loro. La teoria storica più comune è quella che la “Bestia” fossero in realtà più Lupi Antropofagi, che uccidevano da soli e si cibavano principalmente di esseri umani. Il naturalista francese Michel Louis propose, nel 2001, una teoria assai diversa, ovvero che si trattasse di un dogue de Bordeaux appartenente proprio a Jean Chastel. Un cane particolarmente grosso, che era diventato per qualche ragione un mangiatore di uomini, e che si sarebbe infine fatto uccidere dal padrone perché riconosciuto come tale. Un’altra teoria, formulata da Pierre Pourcher e François Fabre, vede la “Bestia” come un giovane leone, scappato in qualche modo alla cattività e incapace alla caccia. Altre ipotesi formulate nel corso degli anni parlano di animali ibridi, di una Tigre, di una Pantera e via discorrendo.

Sotto, un Dogue de Bordeaux. Fotografia condivisa con licenza Creative Commons


Le ultime ipotesi, quelle più fantasiose, identificano il mostro con un licantropo, circostanza giustificata dall’utilizzo del proiettile d’Argento e dalle dimensioni considerevoli del Lupo catturato. Quella del licantropo, anche se del tutto priva di concretezza scientifica, è una teoria affascinante, soprattutto a causa anche della inspiegabile antropofagia dell’animale.


sabato 16 luglio 2022

Quel treno troppo veloce che sfondò la stazione.

L'incidente ferroviario di Montparnasse non si risolse in una strage: ci fu un solo morto, ma l'immagine del treno penzolante dalla stazione fu impressionante.



Nel gennaio 1896, i fratelli Lumiere fecero proiettare per la prima volta il loro film “L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”, erroneamente ritenuto il primo della storia del cinema e al centro di una presunta bizzarra bufala: secondo la leggenda, gli spettatori, assistendo all’arrivo di un treno su quello schermo “larger than life”, furono colti da ansia, paura, terrore, legato all'impressione per cui sembrava che, in prospettiva, il treno penetrasse nella sala. Forse questo mito è legato al ricordo recente di un fatto vero: un incidente molto spettacolare occorso a Parigi nell’ottobre 1895, passato alla storia appunto come l’incidente ferroviario di Montparnasse.


L’incidente di Montparnasse.

Un vero salto nel tempo, metaforicamente e letteralmente. È il 22 ottobre 1895 e alle 8.45 del mattino il treno espresso 56 parte da Granville, come riporta History Daily: il suo arrivo è previsto alle 15.55 alla stazione parigina di Montparnasse, nel cosiddetto quartiere degli artisti. È un bel viaggio, di 350 chilometri, dato che Granville si trova in Normandia.

Ma durante il percorso, nonostante il macchinista sia il collaudato Guillaume Marie Pellerin, accade che il treno inizia ad accumulare ritardi, l’ultimo dei quali, di 9 minuti, è quello della stazione di Versailles Chantiers, distante circa 23 chilometri dal punto di arrivo. Così il macchinista inizia a “correre”, ad accelerare per quanto la tecnologia del tempo glielo consenta, fino ad arrivare alla velocità di 65 chilometri all’ora.

E nei pressi della stazione di Montparnasse accade qualcosa di inaspettato: tutti i freni non funzionano. Prima il freno Westinhouse, una tecnologia recente al tempo, azionato da Pellerin, poi il freno a mano utilizzato dal capotreno Albert Mariette e infine il freno a controvapore. Così il treno entra in stazione alle 16 alla velocità di 40 chilometri all’ora impattando con gli arredi della stazione - orologi compresi - con la barriera dei respingenti a fine binario e infine con la balaustra della facciata. E ricadendo sulla strada.



Nonostante il rocambolesco arrivo del treno, i feriti furono solo 7: due passeggeri, due impiegati delle ferrovie, un vigile del fuoco, Pellerin e il suo aiuto Victor Garnier.

Ma ci fu un morto. Si trattò di Marie-Augustine Aiguillard, moglie di un edicolante che in quel momento sostituiva il marito, andato a prendere un nuovo carico di giornali: mentre era in edicola a sferruzzare la donna fu infatti colpita da un pezzo della balaustra della stazione.

I passeggeri, in totale 131, si salvarono tutti perché i vagoni che li trasportavano erano posti dopo la locomotiva, un vagone postale e due vagoni bagagli. E oltre a questo i compartimenti dei passeggeri furono sganciati immediatamente nel momento dell’impatto.


Le cause e le conseguenze.

Le cause dell’incidente di Montparnasse furono un misto di malfunzionamento tecnico ed errore umano: il fatto che il freno Westinghouse non abbia funzionato ha infatti innescato una reazione a catena. Pellerin e Garnier cercarono di ridurre la velocità prima attraverso il freno a mano utilizzato da Mariette e poi con il freno a controvapore, il cui effetto non andò a buon fine per una ragione di spazio.

Il malfunzionamento tecnico fu riscontrato anche dalla giustizia, che comminò a Pellerin e Garnier 2 mesi di carcere e una multa di 50 franchi. Anche per Mariette ci fu una multa, di 25 franchi. La Compagnie des chemins de fer de l'Ouest pagò per il funerale di Aiguillard e corrispose ai figli una borsa di studio.

La locomotiva rimase sospesa tra la stazione e la strada per 2 giorni e venne rimossa il 25 ottobre. Ci volle un carro con 14 cavalli e un argano da 250 tonnellate per trasportarla in un’officina e il 28 ottobre la stazione di Montparnasse riprese a funzionare regolarmente. Così come è tornata sui binari la locomotiva, che nell’incidente non aveva riportato grossi danni e quindi fu prontamente riparata.


venerdì 15 luglio 2022

Le creature marine più misteriose della storia.

Abbiamo mappato i regni acquatici del nostro pianeta in modo da lasciare ampio spazio a possibili sorprese. E nel corso del tempo in molti, tra questi anche molti scienzia ti,sono andati a cercarle.



Si diceva che il famigerato kraken minacciasse le navi nei mari settentrionali tra la Norvegia e la Groenlandia. Viene comunemente raffigurato come un calamaro o una piovra ma è probabile che queste rappresentazioni siano state influenzate da avvistamenti parziali di balene e squali.

Mostrando un capodoglio, un drago di komodo o un diavolo nero degli abissi a qualcuno per la prima volta si può suscitare la stessa reazione della vista di un personaggio di un film di fantascienza o di un essere mitologico. E quando si tratta di demistificare le espressioni più ostili del nostro pianeta, anche gli scienziati ritengono che siano ancora molte le forme di vita da scoprire.

Un aspetto sembra, tuttavia, invariabile: parlando di enormi creature sconosciute alla scienza, pare che il luogo in cui è maggiormente probabile trovarle sia nelle profondità dell’oceano. Gran parte degli angoli e delle fessure dei nostri oceani sono tuttora inesplorati e, dato che ogni esplorazione delle profondità (luoghi peraltro difficilmente raggiungibili) porta con sé la scoperta di nuove specie, i nostri mari appaiono territori fertili per nuove rivelazioni.


La Carta marina et descriptio septentrionalium terrarum (le convenzioni cartografiche del tempo prevedevano l’uso delle denominazioni in latino) è stata la prima cartina dettagliata della Scandinavia, stampata nel 1539 e creata dal cartografo svedese Olaus Magnus. Rivela la convinzione del tempo per cui ogni animale terrestre avesse un corrispondente marino e che terribili mostri fossero in agguato tra i flutti.

Il mistero che circonda le profondità, abbinato all’immaginazione e alle paure dei navigatori, hanno creato un nutrito cast di creature sottomarine che per secoli hanno terrorizzato le acque della storia.

Alcune di queste leggende sono così intriganti e storicamente tenaci da portare la scienza ad analizzarle a lungo e con attenzione. Alcune possono derivare dall’esagerazione di caratteristiche di animali realmente esistenti mentre altre volte possono essere vere sorprese della natura. Ecco alcuni dei più famosi mostri marini della storia e i loro (eventuali) equivalenti reali.


Cefalopodi giganti.

Per chi solcava i gelidi mari del nord nel Medioevo, il kraken era tutt’altro che una creatura di fantasia. Nata nel mondo della mitologia scandinava, questa creatura – il cui nome deriva dal termine della lingua norrena per “piovra” – dotata di tentacoli sta in agguato nell’oceano tra la Norvegia e la Groenlandia ed emerge per cibarsi degli incauti naviganti che si avventurano nel suo territorio.

La leggenda del kraken era ricca di dettagli: si diceva che si facesse buona pesca nella sua zona perché i pesci erano attratti dai suoi rigurgiti. L’animale in sé (si pensava ce ne fossero almeno due) era immenso, delle dimensioni di un’isola, e confondeva i marinai apparendo e scomparendo tra la nebbia. Le descrizioni del kraken sono una combinazione di creature e dimensioni fantasiose che ricordano le caratteristiche del calamaro gigante, dello squalo elefante, del capodoglio e del granchio.

Un disegno del 1801 di Pierre Denys de Montfort raffigura un’enorme piovra che si diceva avesse attaccato un gruppo di naviganti al largo dell’Angola. Anche per i più grandi cefalopodi queste proporzioni risultano esagerate: i tentacoli del polpo gigante del Pacifico raggiungono al massimo i 4 metri circa di lunghezza.

La sua esistenza non era messa in discussione tra i marinai e anche i naturalisti l’hanno seriamente presa in considerazione: il kraken è menzionato nella prima versione del Systema Naturae – nella categoria Microcosmus marinus – di Carlo Linneo e nella storia naturale norvegese del 1752 in cui l’autore Erik Pontoppidan descrive la creatura come di forma ‘stondata, piatta e piena di braccia o diramazioni’; nello stesso volume vengono citati anche sirene e serpenti marini a conferma del fatto che la conoscenza dei mari a quel tempo era solo abbozzata.

Una mancanza perdonabile: prima dell’epoca dei sommergibili e delle attrezzature da immersione la maggior parte delle idee riguardanti i grandi animali marini si basavano su rapidi avvistamenti in mare o su enormi carcasse rigonfie portate a riva dalla corrente quindi è comprensibile che le prime esplorazioni del mare lasciassero molto spazio alla fantasia. Nelle cartine dell’epoca sono raffigurate acque brulicanti di mostri di ogni tipo che minacciano le navi e i naviganti, una visione che perdurò per molti anni.

Ancora nel 1809, il botanico George Shaw parlava con sobrietà del kraken nelle sue lezioni di zoologia presso la Royal Institution citando parenti europei di questa ‘gigantesca’ specie di seppia (probabilmente lo confuse con un calamaro) nell’Oceano Indiano che probabilmente avevano dato vita alla leggenda per cui ‘Un moderno naturalista sceglie di distinguere questa terribile specie denominandola Seppia gigante e sembra ampiamente disposto a credere a ciò che è stato riportato come effetto delle sue devastazioni’. Continua descrivendo un allora recente attacco a una barca nei ‘mari dell’Africa’ in cui tre marinai sarebbero stati catturati e uccisi dal ‘mostro’. Un tentacolo reciso durante la lotta si dice fosse dello spessore ‘dell’albero di mezzana di una nave e le ventose delle dimensioni di un coperchio’.

Ridimensionando le catture di marinai e i termini di paragone per le dimensioni, le descrizioni successive hanno progressivamente smorzato la rappresentazione sensazionalistica dell’animale fino al punto di renderlo riconoscibile in creature che sappiamo esistere, anche se rimangono oscure.


Questa inquietante immagine dell’artista giapponese del periodo Edo Utagawa Kuniyoshi raffigura un umibozu che emerge dalle acque e incontra 'il marinaio Tokuso'. Esistono svariate rappresentazioni dell’umibozu ma la scura testa stondata e i grandi occhi sono caratteristiche ricorrenti. Tradizionalmente l’umibozu compare quando il mare è calmo e preannuncia tempesta e per questo si ipotizza che la sua leggenda sia legata all’apparizione di cupe nuvole temporalesche o altri fenomeni atmosferici.

Il calamaro gigante, ad esempio – come il suo omologo meridionale, il calamaro colossale, più corto ma più massiccio – mantiene un’aura di mistero essendo stato avvistato vivo solo pochissime volte. Quello che sappiamo deriva dalle informazioni estrapolate dall’analisi di spaventose specie correlate come il calamaro di Humboldt, dalle carcasse rinvenute e dalle cicatrici osservate ad esempio sugli squali e i capodogli che si scontrano con loro negli abissi.

Dotati di ventose dentate, un terribile becco ed enormi occhi, questi invertebrati assomigliano a molte delle descrizioni del kraken. Le proporzioni risultano molto più modeste, tuttavia: il calamaro più grande finora misurato era lungo 13 metri anche se alcuni sostengono che la specie può raggiungere i 27 metri o anche oltre. Rimangono comunque tutte congetture, ovvero, come si addice del resto a un vero mostro marino, non sappiamo veramente cosa potrebbe nascondersi negli abissi.


Manifestazioni sinistre.

Tra i più inquietanti abitanti leggendari del mare c’è l’umibozu giapponese: un essere oscuro che compare nel mare di notte spesso quando le acque diventano agitate. Ha una testa tondeggiante come quella di un monaco buddista da cui il nome che significa ‘sacerdote del mare’; l’umibozu è ampiamente citato nel folklore giapponese a partire dal XVII secolo anche se le sue origini sono incerte.

Secondo la tradizione, l’apparizione dell’umibozu precede una tempesta e la sua leggenda spesso si confonde con quella dei funayurei – le anime dei marinai morti in mare – che presentandosi chiedono un mestolo con il quale poi riempiono di acqua la barca per affondarla. Tra le spiegazioni del fenomeno ci sono le ondate del mare in tempesta, minacciose nuvole mammatus o temporalesche e addirittura miraggi.


Squali giganti

Gli “squali mostro” un tempo erano creature assolutamente reali e forse per questo alcuni continuano a credere alla loro esistenza. Ce ne sono effettivamente di esemplari inquietanti ma probabilmente non il tipo di creature che qualcuno si aspetta. Lo sapremmo, ad esempio, se il megalodonte, lo squalo preistorico di 18 metri con i denti delle dimensioni di piatti da antipasto, fosse ancora in azione dopo 4 milioni di anni dalla sua ultima apparizione nei reperti fossili (il megalodonte è certamente estinto e la colpa potrebbe essere dei grandi squali bianchi).

Segni di morsi sulle carcasse portate a riva e resti sul fondale marino dei grandi denti (a ciclo continuo di crescita e caduta) dimostrerebbero con certezza la presenza nei nostri mari di questo vorace predatore da acque temperate. Tuttavia le acque più fredde e profonde, che ospitano creature più adattabili, potrebbero riservare non poche sorprese.


Uno squalo bocca grande (raramente osservato dal vivo) al largo della costa della California. Pur essendo la specie più piccola tra gli squali filtratori, lo squalo bocca grande è tuttavia un pesce molto grande che raggiunge i cinque metri di lunghezza e, come dice il nome stesso, è dotato di enormi mandibole con decine di file di piccoli denti.

Ne è la prova ad esempio lo squalo bocca grande, un imponente filtratore lungo 5 metri con 50 file di piccoli denti che vive nelle acque tropicali trovato la prima volta impigliato nei cavi di un’imbarcazione di ricerca al largo delle Hawaii nel 1976. Conosciuto solo sulla base degli esemplari rimasti catturati nelle reti, rinvenuti morti e gonfi di acqua o molto raramente osservati in vita, questo curioso lento nuotatore è uno degli strani animali che, nascosti negli abissi, sfuggono alla nostra vista.


Antichi pesci.

Può darsi che plesiosauri e squali giganti non esistano più ma, per avere la riprova che i nostri mari potrebbero ancora ospitare creature considerate estinte da tempo, basta guardare il celacanto. Si pensava che questo strano pesce di quasi 2 metri si fosse estinto insieme ai dinosauri ma nel 1938 ne fu trovato un esemplare vivo al largo della costa del Sudafrica.


Rappresentazione di un celacanto, una specie che suscitò molto interesse quando fu riscoperta nel 1938. Si tratta di un grande pesce predatore dotato di cranio diviso in due parti che gli permette di ingerire grandi prede e che dà alla luce piccoli vivi.

Dotato di una serie di caratteristiche primitive – come cranio diviso in due parti, spina dorsale cava, 8 pinne lobate carnose che si muovono come le zampe degli animali terrestri e occhi molto sensibili alla luce e quindi adatti alla vita nell’oscurità – nel 1998 per il celacanto è stata definita una seconda specie, trovata in Indonesia, che alimenta questa fase di rinascita di una specie che per lungo tempo è stata ritenuta estinta.


Sirene.

A volte, quando una leggenda è ben radicata nella mente dell’osservatore, può bastare una vaga somiglianza per collegarla alla realtà. Questo potrebbe essere stato il caso di Cristoforo Colombo quando, avvicinandosi alla costa della Repubblica Dominicana nel 1493, vide le sirene. “Non sono così belle come si dice”, scrisse sul giornale di bordo, “anzi i loro volti hanno tratti piuttosto mascolini”.


“Tratti mascolini”: un lamantino dell’Oceano Indiano occidentale si offre alla telecamera. Con i suoi lenti movimenti, il lamantino spesso viene inavvertitamente ferito dall’uomo ed è esposto a notevoli minacce.

È quasi certo che le creature che stava descrivendo fossero in realtà lamantini che, tratti del viso a parte, forse differiscono dalle leggendarie sirene anche in altre caratteristiche: sono animali che raggiungono una lunghezza di oltre 3,5 metri e con il loro abbondante strato di grasso arrivano a un peso di 500 kg; presentano un grosso muso con grandi narici che si chiudono sott’acqua, pinne laterali e pinna caudale tondeggiante. Ciononostante l’associazione prese piede tanto che il nome della famiglia del lamantino e del suo cugino del Pacifico, il dugongo, ha assunto il soprannome delle loro controparti mitologiche: sirenii. La parola dugongo in malese significa ‘signora del mare’.


Mostri lacustri

Pochi laghi al mondo hanno una tradizione di mostri acquatici paragonabile a quella di Loch Ness. Questo lago di 37 km di lunghezza, collegato al mare attraverso un sistema di canali che presenta una capacità sufficiente a contenere tutti i laghi e bacini idrici di Inghilterra e Galles, è stato esaminato dai media locali e non in merito alla misteriosa creatura che si dice ospiti da oltre un secolo. I sospetti risalgono ai tempi in cui il missionario cristiano San Columba si dice abbia avuto a che fare con una “bestia acquatica” nel VI secolo ma la saga moderna è iniziata il 2 maggio 1933 quando in un articolo dell’Inverness Courier pubblicò il resoconto di un testimone oculare su un enorme animale che emergeva e si rituffava nelle acque del lago.


Le dimensioni del lago di Loch Ness – quasi 40 km di lunghezza, picchi di profondità di oltre 200 metri, ne rendono difficile l’esplorazione in tutti i suoi punti. È ancora viva la tradizione che racconta di un mostro che ne abiterebbe i fondali; l’ultima immagine a riportare l’attenzione sul tema è stata trovata su Apple maps.

Una, ora famigerata, fotografia che mostrava una creatura dal lungo collo simile a un plesiosauro che emergeva dalle acque seguì l’anno successivo causando una tempesta mediatica. Da allora innumerevoli immagini sensazionalistiche (e di dubbia autenticità) si sono aggiunte ad alimentare le credenze sulla creatura ormai nota con il nome di ‘Nessie’.

La maggior parte degli avvistamenti paragonano la creatura aserpente o a una lucertola d’acqua simile a un plesiosauro, forse un essere dei tempi dei dinosauri che in qualche modo è riuscito a sopravvivere e a prosperare nelle acque ricche di pesci del lago. È un’idea allettante considerando che Loch Ness, che in alcuni punti raggiunge profondità di 220 metri, è notevolmente più profondo della maggior parte del Mare del Nord. Spiegazioni più prosaiche prevedono che potrebbe trattarsi di un grande squalo di acqua dolce, di una seppia particolarmente adattiva, di un tipo di anguilla o addirittura di lontra.


I fotografi e gli scienziati di National Geographic in immersione nelle acque di Loch Ness nel 1977 per esaminare il lago scozzese e i suoi abitanti criptozoologici.

Per un essere che rappresenta la definizione di criptozoologia – accompagnata da una serie di innumerevoli bufale accumulate nella storia, inclusa la foto che sembra stare all’origine di tutto – è stata dedicata una grande attenzione scientifica al determinare la sua esistenza. Alcuni esempi sono gli studi con apparecchi sonar eseguiti dall’Università di Birmingham, un altro studio sponsorizzato dalla BBC e un profilo del DNA del lago eseguito da un team di tre università europee.

Nel 1977 anche National Geographic ha partecipato alle ricerche incaricando il fotografo subacqueo David Doubilet e l’explorer Robert Ballard di condurre uno studio fotografico delle profondità. Ballard avrebbe trovato il Titanic otto anni dopo ma nessuna di queste spedizioni trovò alcuna prova certa sulla presenza di un ‘mostro’ dentro Loch Ness. Tuttavia, nonostante tante teorie confutate, è difficile anche provare la non esistenza della creatura – e la lucrosa tradizione locale su Loch Ness non sembra volersi inabissare nella memoria, per ora.


giovedì 14 luglio 2022

Mary Celeste: il mistero della nave fantasma il cui equipaggio svanì nel Nulla.

Sulle cause della sparizione dell’equipaggio e dell’abbandono del brigantino canadese Mary Celeste nel 1872 è stata considerata ogni ipotesi, dalla più fantasiosa alla più realistica. Nonostante ciò, dopo quasi due secoli dalla sua costruzione, la storia della Mary Celeste rimane uno dei più grandi misteri irrisolti del mare.

Sotto, dipinto del 1861 della nave “Amazon”, in seguito Mary Celeste. Autore sconosciuto Immagine di Hautala, Pubblico Dominio.



Costruita nel 1861 a Spencer Island, in Canada, la nave-brigantino venne inizialmente battezzata col nome “Amazon”. In seguito a una serie di vicende sfortunate, tra cui un naufragio e la morte dei primi due capitani che la comandarono, la nave venne acquistata come rottame da Richard Haines, per 1.750 dollari, e riparata per un costo di oltre 8.000 dollari.

Nel 1868, dopo aver preso il vessillo americano ed esser stato registrato al porto di New York, il brigantino venne rinominato “Mary Celeste”. Tuttavia, nell’ottobre 1869, la nave fu sequestrata ad Haines da alcuni creditori; essa venne rivenduta a un consorzio con a capo James H. Winchester, un facoltoso armatore, che ne suddivise la proprietà con altri investitori.

Obiettivo dei suoi nuovi possessori era quello di commerciare con i grandi porti del Mediterraneo, tra cui anche quelli del Mar Ligure; fu così che il 5 Novembre 1872 la nave salpò da Staten Island (New York), diretta verso Genova, con un carico di 1701 barili contenenti alcool denaturato per uso industriale.

Capitano e comproprietario della Mary Celeste divenne Benjamin Spooner Briggs, socio in affari di James H. Winchester.

Sotto, il Capitano della Mary Celeste Benjamin Spooner Briggs. Immagine di zbigniew.czernik, Pubblico Dominio.


Insieme a un piccolo equipaggio composto da sette uomini, Briggs portò con sé anche la moglie, Sarah E. Briggs, e la figlioletta Sophia Matilda, di soli due anni.

Sotto, Sarah. E. Briggs, moglie di Benjamin Briggs. Immagine di Quibik Pubblico Dominio.

Sotto, Sophia Matilda Briggs. Immagine di Quibik, Pubblico Dominio.



Come Sarah E. Briggs scrisse in una lettera indirizzata alla madre, il principio del viaggio sembrò esser favorito dal personale di bordo, definito “tranquillamente capace”. Ben presto però, la rotta della Mary Celeste subì un’improvvisa interruzione che avrebbe condotto lei e il suo equipaggio a un oblio senza fine.

Il 4 Dicembre 1872, il brigantino mercantile Dei Gratia, capitanato da David Reed Morehouse, si trovava a metà strada tra le coste del Portogallo e delle isole Azzorre, dopo una nottata di forti venti e fitte nubi.

Verso le ore tredici, il capitano avvistò una nave a vele spiegate navigare in modo maldestro; quando la Dei Gratia vi si avvicinò, Morehouse si rese conto che questa era in movimento solo grazie alle vele sussidiarie, mentre le altre erano assenti o severamente danneggiate.

Avvicinatisi all’imbarcazione, gli uomini lessero il nome: Mary Celeste.

Quando, col cannocchiale, ne scrutò la superficie, fu per lui probabilmente una grande sorpresa accorgersi della totale assenza dell’equipaggio. La nave era alla deriva; Morehouse inviò il suo primo aiutante Deveau, accompagnato da qualche altro marinaio, a bordo della Mary Celeste, in cerca di qualcuno.



Sebbene sarebbe stato facile presupporre che l’imbarcazione fosse stata lasciata sul posto in seguito a disastri, carneficine, attacchi da parte di pirati o a epidemie, essa non presentava segni di lotta, carenza di viveri, tracce di sangue o che lasciassero pensare a un incendio.

Solo le stive, dove erano contenuti i barili, presentavano una quantità di acqua al loro interno alta circa 1 metro.

Mancava l’unica scialuppa di salvataggio e alcuni oggetti di navigazione, come bussola, mappe nautiche e sestante, ma gli effetti personali del disperso equipaggio e una gran quantità di provviste erano ancora presenti a bordo. Tutto lasciava presupporre che la Mary Celeste fosse stata abbandonata in fretta, ma non a causa di un pericolo esterno, visto che le armi dello stesso capitano Briggs erano ancora presenti sotto il letto della sua cabina.

Naturalmente incuriositi e preoccupati, Deveau e i suoi marinai consultarono quello che era il diario di navigazione; l’ultima annotazione risaliva alle otto del mattino del 25 Novembre, dove venivano segnalati forti raffiche di vento e l’avvistamento dell’isola di Santa Maria, una delle Azzorre.

Dopo una lunga perlustrazione, Deveau tornò a bordo della Dei Gratia, dove riferì a Morehouse tutto ciò che aveva scoperto. Il capitano prese la decisione di scortare il relitto fino a Gibilterra, a seicento miglia nautiche di distanza dal punto del ritrovamento, dove la Dei Gratia attraccò il 12 Dicembre 1872 mentre il brigantino canadese sarebbe giunto il mattino seguente.

Sotto, un dipinto mostra come apparivano le rocce della scogliera frontale di Gibilterra nel XIX secolo, 1810 circa, autore sconosciuto. Immagine di RedCoat, Pubblico Dominio.



Immediatamente sequestrata dal governo inglese al suo arrivo in porto, la Mary Celeste divenne oggetto d’inchiesta per la sparizione del suo equipaggio, aperta dal procuratore generale di Gibilterra, Frederick Solly Flood.

Sotto, incisione della Mary Celeste (1817-1890) come appariva al momento del ritrovamento, autore sconosciuto. Immagine di GianniG64, Pubblico Dominio.


Le cause della mancanza dell’equipaggio a bordo della nave che il procuratore prese in considerazione furono principalmente due: Gli uomini della Mary Celeste potevano essersi ubriacati e ribellati al capitano e alla sua famiglia, massacrandoli tutti per poi fuggire con la scialuppa.

Ciò fu ipotizzato in seguito alla scoperta di una spada macchiata da una sostanza rossastra, che si rivelò però essere ruggine. Vi era inoltre una gran quantità di alcool a bordo, ma l’alta tossicità di quest’ultimo non avrebbe lasciato scampo ai suoi consumatori.

La prima ipotesi era quindi poco attendibile.

In seconda istanza, Flood pensò che Morehouse e Briggs potessero aver concordato una grande frode ai danni delle assicurazioni, inscenando la sparizione dell’equipaggio e la deriva dell’imbarcazione.

Presto anche questa seconda accusa cadde, poiché Briggs era comproprietario del brigantino, e dal suo abbandono avrebbe tratto soltanto una piccola quota di risarcimento.

Senza alcun appiglio plausibile, il procuratore generale giunse infine a sospettare di Morehouse e dei suoi marinai: Potrebbero aver assassinato l’equipaggio della Mary Celeste e aver finto il ritrovamento del relitto alla deriva per incassare la ricompensa.

Senza concrete prove su cosa fosse effettivamente accaduto alla nave e al suo equipaggio, Flood fu costretto a chiudere e ad archiviare il caso Mary Celeste il 25 Febbraio 1873, assegnando a Morehouse un compenso di circa ottomila dollari per il recupero dell’imbarcazione.

Sebbene il caso della Mary Celeste sembrasse destinato a esser dimenticato, qualche anno più tardi, grazie alla penna di Arthur Conan Doyle, la sua storia riguadagnò fama e risonanza.

Sotto, un ritratto fotografico del 1893 di Sir Arthur Conan Doyle scattato da Herbert Rose Barraud. National Portrait Gallery, Londra. Immagine di Scewing, Pubblico Dominio via Wikipedia


Nel suo breve racconto, scritto per il Cornhill Magazine nel Gennaio 1884, Conan Doyle narrò di un membro dell’equipaggio della nave che, pervaso dall’odio per la razza bianca in quanto di origini nere-africane, avrebbe sterminato l’equipaggio della Mary Celeste in seguito a un raptus omicida, per poi fuggire per mezzo di una delle scialuppe.

Oltre a ciò, raccontò di cosa rinvennero gli scopritori del relitto al suo interno; zuppe ancora bollenti, sigari ancora accesi, e rocchetti di fili di seta ancora in piedi su una macchina per il cucito.

Per lungo tempo, il resoconto dello scrittore fu preso per assoluta verità.

Ciò che il grande pubblico di lettori allora non sapeva, era che tale racconto era solo frutto della fantasia di Doyle, e non cronaca reale; inoltre, le vicende facevano parte di un suo scritto di gioventù “J. Habakuk Jephson’s Statement”, al quale modificò nomi e luoghi per prestarli agli eventi della Mary Celeste.

Nonostante questo, l’immaginazione degli appassionati al caso era già scatenata, intenta a imputare il naufragio della Mary Celeste alle cause più eccezionali.

Come nel 1913 quando, sullo Strand Magazine, vennero pubblicate le memorie di un presunto naufrago del brigantino, Abel Fosdyk, amico del capitano Briggs e presumibilmente imbarcatosi di nascosto. Secondo l’uomo, Briggs avrebbe sfidato per gioco l’equipaggio e la sua famiglia a tuffarsi in mare con gli abiti indosso, dopo averlo fatto egli stesso. Mentre lo osservavano da una piattaforma, questa all’improvviso si sarebbe rotta, trascinando tutti in acqua. Poco dopo, un gruppo di squali li avrebbe raggiunti, divorandoli uno a uno.

Unico superstite era Fosdyk, il quale avrebbe galleggiato, appeso a un asse di legno, fino a una spiaggia sulle coste africane.

Sebbene l’articolo avesse fatto sensazione, venne presto smentito da numerose incongruenze con i fatti realmente accaduti e da dettagli tecnici del brigantino totalmente errati, a cominciare dal fatto che nessun tale Abel Fosdyk risultava mai essere esistito e che non vi era alcuna traccia di una piattaforma costruita in aggiunta al ponte della nave.

Sotto, il porto di New York dipinto da George McCord nel XVIII secolo:


Vennero inoltre ipotizzati ammutinamenti, zuffe tra capitano ed equipaggio, disastri climatici, o addirittura che una piovra gigante avesse divorato tutti i presenti sulla nave.

Ad oggi, l’ipotesi più credibile e più sostenuta pare essere collegata ai barili di alcool denaturato; delle 1701 botti presenti nella stiva, nel porto di Genova ne arrivarono vuote ben nove. Secondo lo storico Conrad Byers, Briggs potrebbe essersi accorto di una perdita di materiale da parte delle botti, realizzate in quercia rossa, (e non in quercia bianca come le restanti) dalle cui travi avrebbe potuto facilmente trasudare la sostanza.

Dopo aver annusato nell’aria i vapori sprigionati dai barili ed aver pensato a un imminente pericolo di esplosione, il capitano avrebbe ordinato l’abbandono immediato della Mary Celeste per mezzo della scialuppa di salvataggio. Ma a causa del forte vento e del mare mosso, la scialuppa si sarebbe slegata dalle corde a cui era assicurata, perdendosi e lacerandosi tra le onde del mare in tempesta.

L’unica soluzione sarebbe stata quella di gettarsi in mare; i naufraghi sarebbero quindi morti di senti, dopo chissà quanti giorni trascorsi a galleggiare nelle acque dell’Atlantico.

L’ipotesi di Conrad Byers, riveduta nel 2005 dallo storico Eigel Wiesse e (su suo suggerimento) da un team dell’Università di Londra, avrebbe trovato conferma, ma con una differenza: un incendio si sarebbe realmente potuto sviluppare sull’imbarcazione, per colpa dei vapori trasudati dalle botti.

Tramite alcuni esperimenti, gli studiosi hanno verificato che l’alcool trasportato, l’etanolo, raggiunge il punto d’infiammabilità a soli 13 gradi centigradi, una temperatura molto bassa. Le fiamme avrebbero quindi potuto sprigionarsi nella stiva, spaventando l’equipaggio e inducendolo ad abbandonare in fretta e furia l’imbarcazione, ma senza compromettere l’integrità del legno e dei materiali presenti a bordo.

Questo spiegherebbe come mai la ciurma di Morehouse, durante il suo sopralluogo, non rinvenne alcun segno di combustione dei materiali a bordo.

La nave venne venduta in fretta e furia dal suo proprietario, disposto a rimetterci pur di liberarsi dello scomodo brigantino. Negli anni seguenti nessun marinaio osò più imbarcarsi sulla nave, e l’ultimo dei 17 proprietari, il capitano Gilman Parker, la fece naufragare il 3 Gennaio del 1885 contro una scogliera nei pressi di Haiti. Il capitano sperava di incassare il premio assicurativo, 30.000 dollari dell’epoca paragonabili a quasi un milione di dollari odierni, ma le compagnie portarono lui e i soci in tribunale, e ottennero di non pagare alcun risarcimento.

Viste le peripezie della Mary Celeste, il capitano e i complici vennero graziati dai giudici.

Nel 2001, l’archeologo marino Clive Cussler, seguito da una troupe televisiva, mostrò di aver trovato il relitto della Mary Celeste incagliato nella scogliera di Rochelois. Fu possibile recuperare solo qualche manufatto, poiché la nave era ormai trattenuta da una grande quantità di corallo.

Sotto, gli scogli Rochelois sono ben visibili fra l’isola di Gonâve e la terra di Haiti.

Fotografia NASA:



Nonostante l’entusiasmo iniziale, alcuni test dendocronologici compiuti su assi di legno recuperati dal relitto dal Geological Survey of Canada, mostrarono che il materiale era legno statunitense, non canadese, e non poteva risalire all’epoca di costruzione della Mary Celeste (1861), bensì alla fine del XIX secolo.

Il brigantino Mary Celeste affolla ancora le menti degli appassionati di mistero e di mare, inducendoli a cercare una spiegazione che probabilmente non potrà mai trovare conferma ufficiale.

Dai rapimenti alieni, ai mostri marini, dai duelli fra uomini, alle calamità naturali, tutto è stato vagliato, tutto è stato preso in considerazione, soprattutto in un’epoca, quella Vittoriana, in cui la passione morbosa per il soprannaturale e il mistero sovrastavano il buon senso.

L’equipaggio della nave sarà certo sparito per sempre, inghiottito dal mare, ma la sua storia rimarrà viva, a galla nei libri di storia, fin tanto che la soluzione a questo enigma rimarrà un’incognita ricoperta di salsedine.




mercoledì 13 luglio 2022

Il mistero della casa sanguinante.


Nel 1987, in una casa nella città di Atlanta sono state ritrovate macchie di sangue umano. Non apparteneva però a nessuno degli abitanti e la casa è stata ribattezzata: la casa sanguinante.


La casa sanguinante di Fountain Drive

L’8 settembre 1987, la 77enne Minnie Winston si trova in bagno quando nota delle macchie di sangue sul pavimento. Spaventata cerca il marito, pensando che possa essere ferito, ma quando urla il suo nome, William Winston compare e non ha nemmeno un graffio.

Anzi, anche lui rimane sorpreso dalle macchie di sangue presenti sul pavimento. Dopo una perlustrazione della casa, i coniugi Winston scoprono che le macchie di sangue sono ovunque: in bagno, in cucina, nel seminterrato, sui muri, sotto alla televisione.

Spaventati, decidono di chiamare la polizia. I poliziotti notano che nella casa non ci sono segni di effrazione e che i coniugi non presentano nessuna ferita. Prendono un campione del liquido rosso per esaminarlo e i risultati lasciano tutti sbigottiti.

Si tratta di sangue umano di tipo 0. Minnie e William Winston hanno entrambi il gruppo sanguigno A e quindi viene definitivamente appurato che il sangue non sia il loro.

Ma di chi era?


Le indagini


La polizia ha trattato il caso come una scena del crimine, nonostante non ci sembrasse essere stato nessun crimine. I rapporti della polizia riportano che nella casa sono state trovate “abbondanti quantità di sangue”.

La notizia fa il giro dei giornali e alla casa di Fountain Drive si presentano centinaia di giornalisti e curiosi. Al contrario di molti altri casi in cui si verificano eventi paranormali (o presunti tali), i coniugi Winston non cercano l’attenzione mediatica.

Anzi, sono abbastanza infastiditi dall’attenzione indesiderata e non vogliono rilasciare interviste.

Le indagini, guidate dal Detective Steve Cartwright, continuano, ma il mistero rimane a tutt’oggi irrisolto.


Ipotesi

Lo scrittore Curt Rowlett, nel suo libro “Labyrinth13: True Tales of the Occult, Crime & Conspiracy” afferma di avere intervistato la signora Winston dopo che l’interesse per il caso era scemato e che questa gli abbia detto che le macchie non erano sangue, ma acqua mista a ruggine.

Le analisi della polizia ovviamente smentiscono questa affermazione, ma la donna non ha mai creduto che si trattasse di un evento soprannaturale, forse perché non voleva ammettere di vivere in una casa infestata da qualche spirito.

Le ipotesi in questo caso vanno da quelle paranormali a quelle più razionali. I sostenitori della teoria paranormale affermano che la casa possa essere stata teatro di un omicidio in passato. I coniugi Winston però vivevano lì da ben 20 anni e non avevano mai sperimentato niente di paranormale prima.

Le ipotesi più razionali pensano invece che sia stato qualcuno a mettere il sangue nella casa, per uno scherzo o per ottenere qualcosa.

Si tende ad escludere che possano essere stati i coniugi a organizzare il tutto per attirare l’attenzione dei media, soprattutto perché non hanno mai voluto rilasciare interviste né partecipare a programmi televisivi.

Chi avrebbe avuto interesse a fare una cosa del genere? E come è riuscito a ottenere il sangue e a entrare nella casa di Fountain Drive senza lasciare tracce?

Il caso è ancora oggi irrisolto ed è l’unico in cui sia stato trovato sangue umano in una casa senza alcuna spiegazione.

Un caso simile può forse essere quello di Jackie Hernandez. Nel suo caso però il liquido che fuoriusciva dalle pareti non era vero e proprio sangue, ma plasma.


martedì 12 luglio 2022

Urban Legends

 


Urban Legends è stata una trasmissione televisiva dedicata alle leggende metropolitane, andata in onda su Italia 1 nel 2007 e condotta da Andrea Pellizzari.

La trasmissione è andata in onda su Italia 1 il lunedì sera, alle 23:35, condotta da Andrea Pellizzari e la modella brasiliana Regina Fioresi. Nel corso della serata venivano visualizzate sei storie, tra le quali due vere e quattro false: lo scopo era indovinare quali erano le due veritiere.

Il programma è stato in seguito replicato sui canali Italia 2 e TOP Crime.



lunedì 11 luglio 2022

Luna nera

Risultati immagini per Luna nera (astrologia)





La Luna Nera, chiamata anche Lilith, nella cartomanzia e nell'astrologia indica uno dei due fuochi dell'orbita lunare, l'altro dei quali è occupato dalla Terra.
Anticamente Lilith era in realtà il nome dato a un secondo satellite naturale della Terra oltre alla Luna, quello che gli antichi egizi chiamavano Nefti. Nella storia dell'astrologia occidentale ha assunto però lo stesso significato simbolico della Luna Nera, relativo al potere inconscio e ribelle dell'emancipazione femminile, sicché le due entità hanno finito per essere identificate.

Storia
Una leggenda risalente ai Pitagorici considerava originariamente Lilith alla stregua di un'anti-Terra, invisibile dal pianeta terrestre.
Nella tradizione esoterica e cabalistica passò a designare un piccolo corpo celeste, compagno della Luna, che sarebbe stato effettivamente individuato nel 1618 dall'astronomo emiliano Riccioli, e successivamente da Cassini e Alischer. In seguito si sarebbero avuti altri avvistamenti di questa seconda luna terrestre, l'ultimo dei quali nel 1898 da parte di Georg Waltemath, astronomo di Amburgo.
Rifacendosi a Waltemath, il teosofo cabalista Sepharial nel 1918 fu il primo astrologo ad utilizzare questo ipotetico satellite nei suoi calcoli, chiamandolo "Luna Nera" per la sua simbologia oscura, e perché esso avrebbe avuto a suo dire una superficie totalmente nera da risultare praticamente invisibile per la maggior parte del tempo. Gli attribuì un moto uniforme di 3° al giorno e lo rinominò Lilith, cioè col nome della prima moglie leggendaria di Adamo, precedente a Eva.
Figura medievale citata nello Zohar, Lilith era tornata in voga nella letteratura esoterica tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del XX secolo.
Da allora tuttavia non è stato mai più segnalato dagli astronomi un astro errante con simili caratteristiche.

Posizione e orbita
Schema esplicativo che raffigura la Luna Nera nel secondo fuoco dell'orbita lunare, l'altro essendo la Terra.
Sarà nel 1937 che Dom Neroman identificò la "Luna Nera" come il secondo fuoco dell'orbita lunare. Da allora cominciò ad apparire sempre più nei temi astrali, venendo trattata astrologicamente come un pianeta, anche se non corrisponde a un vero corpo celeste. La presenza di un astro materiale in quella regione di spazio contraddirebbe d'altronde le leggi di Keplero.
Si tratta quindi di un punto vuoto che rispetto alla Terra si muove seguendo la precessione absidale dell'orbita lunare impiegando 3231,50 giorni (quasi 9 anni) per girare attorno alla sfera celeste, e attraversando così in questo periodo tutti i segni dello zodiaco. Esso percorre in realtà 3 gradi ogni giorno lunare, cioè all'incirca in 28 giorni terrestri.

Simbologia
Il significato della Luna Nera accentua in senso estremo e negativo il simbolismo della Luna tradizionale, collegato all'aspetto inconscio e materno della femminilità. Rappresenta infatti le componenti più oscure e inquietanti della personalità, che nonostante ciò occorre in qualche modo far emergere alla coscienza per evitare di soccombere alla loro potenza distruttiva.
Per le persone di sesso maschile, in particolare, la Luna Nera assomma tutte le esperienze angosciose, le insoddisfazioni e le paure ancestrali vissute nei rapporti con l'altro sesso. Per le donne simboleggia invece la forza dell'erotismo congiunto alla dimensione dell'occulto, l'affrancamento dai vincoli e la sfrenatezza degli istinti repressi; costituisce in un certo senso la parte in ombra della psiche femminile, mentre la Luna bianca ne è l'aspetto conscio.
Nel tema natale di un oroscopo, la posizione della Luna Nera esprime il modo in cui una persona vive la propria sessualità e le proprie pulsioni più profonde. Può denotare inoltre un particolare tipo di mancanza a cui occorre sopperire, variabile a seconda del segno zodiacale in cui si trova.


Nella cultura di massa
Nel programma televisivo La zingara, andato in onda dal 1995 al 2002, la Luna Nera identificava una carta nefasta il cui eventuale pescaggio determinava la fine prematura del gioco a premi che vi si svolgeva, basato su una versione riadattata degli arcani maggiori dei Tarocchi.

 
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