martedì 9 settembre 2025

Ali antiche: dai vimana agli aerei orbitali, il filo invisibile della conquista del cielo


A metà marzo 2018, durante un evento del Corpo dei Marines a San Diego, l’allora presidente Donald Trump annunciò ufficialmente la creazione di una nuova branca delle Forze Armate statunitensi: la Space Force. Per la prima volta, gli Stati Uniti riconoscevano lo spazio circumterrestre come un potenziale campo di battaglia, al pari della terraferma, del mare e dello spazio aereo. Non era una semplice dichiarazione politica: sanciva l’inizio di una nuova corsa allo spazio, non più soltanto civile, come con la NASA, ma apertamente militare.

La decisione di Trump segnava anche un ritorno alle origini. Già nel 1953, il presidente Dwight Eisenhower aveva distinto chiaramente tra l’esplorazione spaziale civile e quella militare, aprendo la strada allo sviluppo di veicoli senza pilota destinati alla sorveglianza e alla difesa. Sessantacinque anni dopo, la Space Force riprendeva quel percorso, ma con mezzi tecnologici infinitamente più sofisticati.

Fiore all’occhiello della tecnologia militare americana è l’X-37B, un veicolo orbitale sperimentale senza pilota sviluppato per condurre operazioni in orbita bassa, tra i 200 e i 750 chilometri dalla Terra. Piccolo ma versatile, questo “mini-shuttle” è in grado di modificare rapidamente la sua altitudine orbitale, compiere manovre complesse e restare nello spazio per oltre un anno.

Il 17 giugno 2013, la sua seconda missione di prova si concluse con successo in California, dopo 468 giorni consecutivi in orbita. Altre missioni seguirono nel 2015, nel 2017 e negli anni successivi, accendendo dibattiti sulle sue reali capacità: semplice laboratorio orbitale o piattaforma militare segreta, capace di trasportare tecnologie difensive (o offensive) in orbita?

Molti osservatori hanno intravisto nell’X-37B un potenziale preludio a futuri programmi spaziali in grado di:

  • difendere la Terra da possibili impatti asteroidali,

  • respingere attacchi dallo spazio,

  • o, in prospettiva, condurre missioni verso pianeti vicini.

Ma se le sue linee ricordano qualcosa, non è solo per la parentela con gli space shuttle americani o con il sovietico Buran: lo X-37B evoca silhouette molto più antiche.

Nell’India antica, i testi sanscriti parlavano di misteriosi veicoli celesti chiamati vimana, descritti con dovizia di dettagli nel Vimanika Shastra. Questi velivoli, secondo la tradizione, erano usati dagli dèi per spostarsi, combattere e dominare i cieli.

Le cronache parlano di macchine capaci di:

  • muoversi orizzontalmente e verticalmente,

  • librarsi immobili a mezz’aria,

  • modificare forma e dimensione,

  • cambiare rapidamente direzione grazie a un sofisticato sistema di spinta.

Alcuni testi descrivono addirittura propulsori a mercurio, motori turbogetto alimentati con carburanti vegetali e ali ripiegabili per aumentare l’autonomia: concetti che sembrano straordinariamente moderni.

Il parallelo con lo shuttle americano e con l’X-37B è affascinante. Gli studiosi di storia alternativa hanno sottolineato le somiglianze fra i disegni dei vimana e i progetti aerospaziali contemporanei, ipotizzando un filo invisibile che unisce la mitologia antica alle tecnologie moderne.

I racconti di macchine volanti non sono esclusivi dell’India. In Persia, nel 1935, l’archeologo Henry Rawlinson scoprì a Behistun un bassorilievo del 523 a.C. raffigurante la divinità Ahura Mazda su un enigmatico velivolo alato.

Le tradizioni slave parlano di vaitman o vaitmar, veicoli spirituali capaci di viaggiare non solo tra i mondi terreni ma anche attraverso diversi piani dell’esistenza. Ogni divinità aveva il proprio: il dio Vyshen compariva su un’aquila meccanica, mentre Svarog, assimilato al Brahma indiano, viaggiava su un cigno di metallo.

In Tibet, i vimana erano descritti come perle luminose che scendevano sui laghi con fragore, sollevando vortici d’acqua. Persino il Bardo Thodol, il Libro tibetano dei morti, menziona rumori fragorosi associati a questi veicoli.

Infine, nel cuore del Messico, il coperchio del sarcofago di Pacal il Grande, sovrano maya di Palenque (VI secolo d.C.), mostra una figura seduta in una capsula spaziale, con mani sui comandi e fiamme che fuoriescono da ugelli: un’immagine che da decenni alimenta l’ipotesi di un’antica conoscenza aerospaziale.

Molte di queste tradizioni parlano di guerre celesti combattute dagli dèi nei cieli. Città ridotte in cenere, armi distruttive, veicoli perduti. Eppure, secondo queste narrazioni, parte di quelle conoscenze sopravvisse, trasmessa in segreto fino all’era moderna, riemergendo in discipline come la matematica, l’ingegneria e l’aeronautica.

Gli storici tradizionali restano prudenti: per loro si tratta di allegorie religiose o interpretazioni simboliche. Tuttavia, il fascino di queste descrizioni è tale da spingere molti a chiedersi se dietro i miti non si nasconda un nucleo di verità: la memoria deformata di incontri con tecnologie dimenticate, forse provenienti da civiltà perdute o da visitatori celesti.

Dallo X-37B alle Space Force, l’uomo moderno sembra ripercorrere sentieri già tracciati da miti e leggende. Forse le “ali antiche” non sono mai esistite se non nella fantasia degli antichi scribi; forse invece erano testimonianze di esperienze reali, troppo avanzate per essere comprese nel loro tempo.

Quel che è certo è che oggi, come migliaia di anni fa, lo spazio rappresenta una frontiera di potere, di mistero e di conflitto. La differenza è che ora non parliamo più di dèi, ma di nazioni, eserciti e strategie geopolitiche.

Il compito dell’umanità, come ricordano le stesse cronache leggendarie, non è solo conquistare i cieli, ma farlo preservando la pace e la sopravvivenza del nostro mondo. Le “ali antiche” — reali o simboliche — ci ammoniscono: la conoscenza può elevare, ma anche distruggere.

Il futuro dipenderà da come sceglieremo di usarla.



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