lunedì 15 settembre 2025

Può uno scettico ragionevole sostenere la legge sul cambiamento climatico?


Nel dibattito globale sul cambiamento climatico, una domanda cruciale divide opinioni e coscienze: può uno scettico ragionevole sostenere la necessità di una legge per contrastarlo? In un’epoca segnata da disinformazione, polarizzazione politica e manipolazione dei dati, il confine tra sana prudenza scientifica e negazionismo ideologico è sempre più sottile. Eppure, la risposta non risiede nei proclami, ma nell’analisi dei fatti.

La recente indagine condotta dal Center for Inquiry (CFI) — istituto americano dedicato alla promozione della razionalità e del pensiero critico — ha gettato nuova luce su un documento spesso citato dagli oppositori delle politiche climatiche: il Rapporto di minoranza del Senato degli Stati Uniti, che includeva un elenco di 687 presunti “scienziati discordi” sul consenso climatico.

A prima vista, la lista sembrava un colpo mortale alla narrativa della quasi unanimità scientifica sul riscaldamento globale antropico. Ma un’analisi accurata del CFI ha rivelato una realtà ben diversa — e assai più inquietante.

Il rapporto, diffuso alcuni anni fa da membri del Partito Repubblicano notoriamente contrari a regolamentazioni ambientali, intendeva dimostrare che centinaia di esperti mettevano in dubbio le teorie dominanti sul clima. Tuttavia, gli investigatori del Center for Inquiry, dopo aver verificato uno a uno i nomi presenti, hanno scoperto che l’80% dei firmatari non aveva mai pubblicato un solo articolo scientifico sottoposto a revisione paritaria (peer-reviewed) nel campo della climatologia.

Molti dei nominativi inclusi non erano nemmeno climatologi: tra loro figuravano ingegneri, economisti, fisici nucleari, meteorologi televisivi, consulenti industriali e persino alcuni esperti in discipline del tutto estranee alla scienza del clima. In numerosi casi, i presunti “dissidenti” non erano stati nemmeno interpellati prima di essere inseriti nell’elenco; alcuni avevano successivamente chiesto di essere rimossi, dichiarando di non condividere la posizione negazionista loro attribuita.

Il risultato? Un documento che, lungi dal rappresentare una sfida credibile al consenso scientifico, si è rivelato una manipolazione retorica, costruita per seminare confusione e ritardare l’adozione di politiche ambientali.

Il punto centrale sollevato dal CFI non è la critica in sé — la scienza vive di scetticismo — ma la qualità dello scetticismo. Lo scetticismo autentico, infatti, nasce dal dubbio metodico e si fonda su prove verificabili. Il negazionismo, invece, parte da una conclusione ideologica e cerca selettivamente dati o argomenti che la confermino.

Nel caso del cambiamento climatico, i dati raccolti da decenni di osservazioni, misurazioni satellitari e modelli fisici indicano chiaramente un trend: l’aumento delle temperature medie globali è reale e in gran parte causato dalle attività umane, in particolare dall’emissione di gas serra come anidride carbonica e metano.

Mettere in discussione i dettagli dei modelli o l’efficacia delle misure politiche è legittimo; negare la base stessa del fenomeno è, invece, una distorsione intellettuale.

La lista dei “687 scienziati” non è un episodio isolato, ma parte di una più ampia strategia di strumentalizzazione politica della scienza. Negli Stati Uniti, come in molti altri Paesi, il tema del clima è diventato un campo di battaglia ideologico: da un lato, chi invoca misure urgenti per ridurre le emissioni; dall’altro, chi le considera un freno alla crescita economica o una minaccia alla sovranità industriale.

Con l’attuale amministrazione del presidente Donald Trump, il dibattito ha assunto toni ancora più accesi. Mentre le agenzie ambientali federali sono state spesso accusate di pressioni politiche e tagli ai programmi di ricerca, una parte dell’opinione pubblica — alimentata da think tank e lobby energetiche — ha continuato a promuovere la narrativa secondo cui “la scienza non è unanime”. Ma unanimità e consenso non sono la stessa cosa: nella comunità scientifica, il consenso emerge non da votazioni o ideologie, ma dalla convergenza indipendente dei dati.

Oggi, oltre il 97% degli scienziati del clima attivi nel campo della ricerca concorda sul fatto che il riscaldamento globale è in corso e che le attività umane ne sono la principale causa. Questo consenso non è un dogma, ma il risultato di migliaia di pubblicazioni peer-reviewed, esperimenti e osservazioni indipendenti che, nel tempo, hanno rafforzato la stessa conclusione da prospettive diverse.

È dunque ragionevole che la politica si basi su tale evidenza per elaborare normative. Una legge sul cambiamento climatico non è un atto di fede, ma una traduzione legislativa di dati scientifici consolidati. Come le leggi sulla sicurezza stradale o sulla salute pubblica, si fonda sul principio di precauzione: prevenire danni maggiori agendo sulle cause note.

Ma torniamo alla domanda iniziale: può uno scettico ragionevole sostenere una legge sul clima?
La risposta è sì, a patto che il suo scetticismo sia informato e onesto. Lo scettico autentico non nega i fatti, li verifica. Non rifiuta il consenso scientifico, ma ne esamina i limiti per migliorarne la precisione. E, soprattutto, riconosce che in un sistema complesso come quello climatico l’assenza di certezza assoluta non giustifica l’inazione.

Uno scettico ragionevole, consapevole delle prove accumulate e delle conseguenze economiche, sociali e ambientali dell’inazione, può benissimo sostenere politiche climatiche pragmatiche, mirate, basate su dati e aggiornabili nel tempo. La vera razionalità, infatti, non è immobilismo, ma adattamento alle evidenze.

Negare il cambiamento climatico oggi significa ignorare segnali sempre più tangibili: scioglimento accelerato dei ghiacciai, desertificazione, eventi meteorologici estremi, migrazioni climatiche, impatti sulla salute e sull’economia globale. Tutto ciò non appartiene al futuro remoto, ma al presente.

La sfida non è più stabilire se il riscaldamento globale esista, ma come affrontarlo in modo efficace e giusto. E per farlo serve una base comune di realtà, non una frammentazione ideologica alimentata da liste fuorvianti e pseudoscienza.

La lezione del rapporto del Senato e della sua smascherata lista dei “687 scienziati” è chiara: la disinformazione veste spesso i panni della competenza. In un’epoca di verità manipolate, il compito dello scettico ragionevole è distinguere tra dubbio costruttivo e negazione strumentale.

La scienza non chiede fede cieca, ma impegno critico. E un vero scettico, proprio perché ragionevole, non teme di sostenere leggi che proteggono il pianeta sulla base delle migliori conoscenze disponibili. Perché l’unica posizione davvero irragionevole, oggi, è quella di chi continua a negare l’evidenza.



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