sabato 13 settembre 2025

La Sindone di Torino e la sfida della scienza: la “Seconda Sindone” di Gigi Garlaschelli


Da oltre sei secoli la Sindone di Torino divide il mondo tra fede e ragione. Per i credenti è la più sacra delle reliquie cristiane: il sudario che avrebbe avvolto il corpo di Gesù Cristo dopo la crocifissione. Per gli scienziati, invece, è uno degli enigmi più complessi e affascinanti mai affrontati, un rebus di chimica, fisica e storia che resiste a ogni spiegazione definitiva.

Da quando fece la sua comparsa in Europa, attorno alla metà del XIV secolo, il telo di lino lungo oltre quattro metri ha suscitato venerazione e scetticismo in egual misura. L’immagine di un uomo flagellato, coronato di spine e crocifisso è impressa in modo misterioso sulla superficie del tessuto. Non è dipinta, non è incisa, non è il risultato di pigmenti o colorazioni note. È una presenza evanescente, un negativo fotografico ante litteram, tanto da spingere generazioni di studiosi a domandarsi come sia possibile che un artefatto medievale presenti caratteristiche così avanzate.

Secondo i sostenitori dell’autenticità, nessuna tecnologia conosciuta sarebbe in grado di riprodurre le peculiarità della Sindone: l’immagine superficiale che non penetra le fibre, l’assenza di pigmenti riconoscibili, la tridimensionalità ottenuta da semplici variazioni di intensità luminosa. Tuttavia, un uomo ha provato a mettere in discussione questa affermazione con il linguaggio stesso della scienza. Il suo nome è Gigi Garlaschelli, chimico dell’Università di Pavia, noto per il suo approccio rigoroso e per le sue indagini sui presunti fenomeni paranormali condotte insieme al CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze).

Garlaschelli non è un iconoclasta, né un polemista per vocazione. È uno scienziato abituato a mettere alla prova i fatti. La sua idea nacque da una domanda semplice ma decisiva: se la Sindone è un manufatto umano, è possibile riprodurla utilizzando tecniche compatibili con quelle medievali?

L’obiettivo non era creare un falso moderno, bensì verificare se un artigiano del Trecento, con i mezzi dell’epoca, avrebbe potuto ottenere un effetto analogo. In laboratorio, il chimico e il suo team hanno utilizzato un telo di lino grezzo, simile per tessitura a quello torinese. Su di esso è stata stesa una sottile patina di pigmento a base di ocra, mescolata con acido e riscaldata per ottenere una colorazione superficiale. L’immagine è stata poi impressa facendo aderire il tessuto a una sagoma tridimensionale di un uomo, utilizzata come matrice.

Dopo aver rimosso i residui e sottoposto il lino a un processo di invecchiamento artificiale — tramite calore, esposizione al sole e lavaggi — il risultato appariva sorprendente: un volto e un corpo impressi sul tessuto con caratteristiche visive simili a quelle della Sindone originale. L’immagine, come nel caso del telo torinese, risultava superficiale, priva di tratti pittorici evidenti, e rivelava una gradazione di toni coerente con una rappresentazione tridimensionale.

Quando nel 2009 Garlaschelli presentò la sua “Seconda Sindone”, la notizia fece rapidamente il giro del mondo. Alcuni giornali parlarono di “smontaggio del miracolo”, altri lo accusarono di blasfemia o di voler ridicolizzare la fede. In realtà, l’intento dell’esperimento era eminentemente scientifico: dimostrare che non è necessario invocare un evento soprannaturale per spiegare l’origine dell’immagine.

«Abbiamo voluto mostrare», spiegò Garlaschelli, «che una persona vissuta nel Medioevo, dotata di abilità artistiche e conoscenze tecniche, avrebbe potuto realizzare un oggetto molto simile alla Sindone con mezzi a disposizione all’epoca. Questo non significa che la Sindone di Torino sia necessariamente un falso, ma che non è impossibile riprodurla».

L’esperimento ha ottenuto l’attenzione di molti scienziati internazionali. Alcuni ricercatori di fisica e chimica dei materiali hanno confermato che la tecnica adottata riproduce in modo convincente la colorazione superficiale tipica della Sindone. Altri, tuttavia, hanno sottolineato che il reperto torinese presenta caratteristiche microscopiche uniche, come la distribuzione del colore solo sulle fibrille più esterne del lino, o la presunta assenza di tracce organiche compatibili con pigmenti.

La Chiesa cattolica ha mantenuto una posizione prudente. Ufficialmente, non ha mai proclamato l’autenticità del telo come reliquia di Cristo, ma continua a considerarlo un “segno di fede” e un potente simbolo spirituale. Per milioni di pellegrini, la Sindone non ha bisogno di prove scientifiche: il suo valore risiede nella devozione, nella commozione che suscita, nella possibilità di contemplare un’immagine che incarna la sofferenza umana e divina.

La scienza, d’altro canto, non nega il valore religioso del simbolo, ma chiede che i fenomeni siano sottoposti a verifica, replicabilità e falsificabilità — i tre pilastri del metodo sperimentale. È in questo spazio di tensione, tra il mistero e la ragione, che si colloca la “Seconda Sindone” di Garlaschelli: non una provocazione, ma un esperimento di epistemologia applicata, un invito a distinguere ciò che può essere oggetto di fede da ciò che può essere oggetto di studio.

Uno degli aspetti più discussi resta la datazione al radiocarbonio, condotta nel 1988 da tre laboratori indipendenti — Oxford, Zurigo e Tucson — che collocarono la realizzazione della Sindone tra il 1260 e il 1390. Questo dato, per la comunità scientifica, è un argomento forte a favore dell’origine medievale. Tuttavia, i sostenitori dell’autenticità hanno sollevato dubbi metodologici, sostenendo che il campione analizzato proveniva da una porzione di tessuto rammendata dopo un incendio nel 1532, e dunque non rappresentativa dell’intero telo.

Anche su questo fronte Garlaschelli si mostra cauto: «Il radiocarbonio ha indicato un intervallo coerente con la prima apparizione storica della Sindone, nel 1357 a Lirey, in Francia. Ma l’aspetto più interessante non è tanto la data, quanto il modo in cui la scienza e la religione reagiscono a un dato che mette alla prova le loro certezze».

La “Seconda Sindone” non pretende di sostituirsi all’originale, né di risolvere il mistero. È, piuttosto, un esperimento dimostrativo, un atto di ragione contro il fascino dell’inspiegabile. Mostra che la curiosità e la sperimentazione possono convivere con il rispetto per la tradizione. In un’epoca dominata da disinformazione e credenze infondate, l’impresa di Garlaschelli assume un significato che va oltre il laboratorio: diventa una lezione di pensiero critico, una difesa della libertà intellettuale contro il dogma.

C’è, in fondo, qualcosa di profondamente umano in questa ricerca: la volontà di capire, di avvicinarsi al mistero senza distruggerlo. Laddove la fede invita al silenzio, la scienza invita alla domanda; laddove la religione vede il sacro, la ragione cerca il meccanismo. Entrambe, però, partono dallo stesso impulso: la sete di verità.

Oggi, la Sindone di Torino rimane custodita nel Duomo della città, visibile solo in rare occasioni. Milioni di fedeli continuano a venerarla, e milioni di scettici continuano a studiarla. In questo equilibrio tra adorazione e analisi, la “Seconda Sindone” di Garlaschelli resta una pietra miliare del dibattito contemporaneo: un esempio di come la scienza possa dialogare con la spiritualità senza necessariamente negarla.

Che il telo sia il vero sudario di Cristo o un capolavoro artigianale medievale, la sua forza simbolica rimane intatta. Come tutte le grandi icone dell’umanità, la Sindone non vive solo nel tessuto di lino, ma nella mente di chi la osserva, nel bisogno di credere e comprendere che accomuna da sempre gli esseri umani.

E forse, proprio qui, risiede il suo segreto più grande: non nel miracolo, ma nella straordinaria capacità di tenere insieme il dubbio e la speranza, la ragione e il mistero, la scienza e la fede.


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