sabato 3 maggio 2025

Gli antichi testi indiani ispirano le auto senza pilota

I Veda, antichi testi indiani scritti più di 2000 anni fa, potrebbero rivelarsi fondamentali per progettare robot in grado di prendere decisioni etiche, come nel caso delle auto senza pilota. A scoprire questa connessione è un gruppo di ricercatori, tra cui l'italiana Agata Ciabattoni, del Politecnico di Vienna, e Elisa Freschi, specialista di sanscrito all'Accademia Austriaca delle Scienze.

I Veda, un vasto insieme di scritti filosofici e religiosi, sono stati da sempre considerati troppo complessi da interpretare, anche per i linguisti e i filosofi, a causa della loro scrittura in sanscrito e della difficoltà di tradurre le idee in un linguaggio comprensibile. Tuttavia, grazie all’approccio innovativo di questo gruppo di ricercatori, finalmente è possibile utilizzare la logica matematica per tradurre i principi morali contenuti nei Veda in un linguaggio che le macchine possano comprendere.

Questa ricerca si basa sull’interpretazione di una scuola filosofica antica, la Mīmāṃsā, che considera i precetti morali nei Veda come leggi razionali e obiettive. I filosofi di questa scuola si sono chiesti, ad esempio, che cos’è un “obbligo”, a chi si applica e cosa fare quando due obblighi si scontrano. Le riflessioni emerse da questi testi potrebbero fornire risposte a dilemmi etici che i robot devono affrontare.

Un esempio famoso di dilemmi morali è il "dilemma del tram", in cui una macchina deve decidere se sacrificare una persona per salvare altre. Qui entra in gioco una delle teorie di un filosofo Mīmāṃsā, che sostiene che in certe situazioni difficili si debba scegliere “il male minore”. I ricercatori si stanno impegnando a tradurre queste idee in formule matematiche che possano aiutare le macchine a prendere decisioni etiche, come nel caso delle auto senza pilota che devono scegliere tra due opzioni pericolose.

Ciabattoni spiega che, mentre la logica classica si occupa di stabilire se una cosa sia vera o falsa, la logica che i ricercatori stanno sviluppando si concentra su ciò che dovremmo o non dovremmo fare, basandosi su obblighi e divieti. In altre parole, si tratta di un approccio che va oltre la semplice verità, per arrivare a una scelta moralmente corretta, utile per macchine che potrebbero presto dover prendere decisioni cruciali da sole.

Questa ricerca, che unisce filosofia, informatica e logica matematica, potrebbe avere applicazioni enormi nel mondo della robotica e dell’intelligenza artificiale, creando macchine in grado di operare non solo con efficienza, ma anche con consapevolezza etica.



venerdì 2 maggio 2025

Caccia ai "Gemelli della Terra" Resa Più Difficile da una Luce Cosmica Abbagliante

 

La ricerca di pianeti alieni che potrebbero ospitare la vita si fa più complicata. Un team di astronomi, utilizzando il potente telescopio VLT (Very Large Telescope) dell'ESO (European Southern Observatory) sulle Ande cilene, ha scoperto che molti sistemi stellari sono avvolti da una luce intensa, migliaia di volte più brillante di quella che osserviamo attorno al nostro Sole. Questa luce abbagliante, chiamata luce zodiacale, rischia di oscurare la vista dei pianeti "abitabili", quei mondi esterni al nostro sistema solare che potrebbero assomigliare alla Terra.

Cos'è questa luce misteriosa?

Immaginate la polvere finissima che fluttua nell'aria dopo che due asteroidi si sono scontrati, o il vapore lasciato da una cometa che si scioglie vicino al Sole. La luce zodiacale è proprio questo: luce stellare riflessa da minuscole particelle di polvere cosmica, generate principalmente dalle collisioni tra asteroidi e dalla "vaporizzazione" delle comete. Dal nostro pianeta, questa luce appare come un debole bagliore diffuso nel cielo notturno, visibile poco dopo il tramonto o appena prima dell'alba. Ma questa luce non è un'esclusiva del nostro sistema solare: ora sappiamo che esiste anche attorno ad altre stelle.

Grazie alla sensibilità del telescopio VLT, gli astronomi hanno scrutato ben 92 stelle vicine, individuando una luce zodiacale sorprendentemente brillante in nove di esse. In questi sistemi stellari, la polvere sembra provenire dalle collisioni tra piccoli corpi celesti di pochi chilometri di diametro, chiamati planetesimi (gli "antenati" di asteroidi e comete). Un risultato inaspettato è che questa polvere sembra concentrarsi attorno alle stelle più anziane.

Questa scoperta ha lasciato perplessi i ricercatori. Ci si aspetterebbe che la quantità di polvere prodotta dalle collisioni diminuisca con il tempo, man mano che i planetesimi si scontrano e vengono distrutti. Invece, la luce zodiacale osservata in questi nove sistemi stellari è fino a mille volte più intensa di quella che circonda il nostro Sole. Come spiega Olivier Absil dell'Università di Liegi, uno degli autori dello studio, "sembra che ci sia un gran numero di sistemi che contengono polvere meno brillante, non rilevabile con la nostra ricerca, ma comunque molto più brillante di quella del Sistema Solare".

Questa luce zodiacale intensa rappresenta un vero e proprio ostacolo per la ricerca di esopianeti abitabili. Immaginate di cercare una lucciola in una stanza illuminata a giorno: la luce brillante renderebbe l'impresa quasi impossibile. Allo stesso modo, la luce intensa proveniente dalla polvere attorno a queste stelle potrebbe oscurare i deboli segnali luminosi provenienti da pianeti potenzialmente simili alla Terra, rendendo molto difficile la loro individuazione e lo studio delle loro atmosfere.

Nonostante questa sfida, la ricerca di mondi alieni abitabili continua. Questa scoperta, lungi dal scoraggiare gli scienziati, li spinge a sviluppare nuove strategie e tecnologie per "vedere attraverso" questa cortina di luce cosmica. Forse in futuro telescopi ancora più potenti o nuove tecniche di analisi della luce ci permetteranno di svelare i segreti di questi sistemi stellari "polverosi" e di continuare la nostra affascinante caccia ai "fratelli della Terra".


giovedì 1 maggio 2025

Universi Paralleli Non Sono Più Fantascienza: Scienziati Suggeriscono Interazioni Reali

Preparatevi a mettere in discussione la vostra concezione della realtà: un gruppo di scienziati australiani sta seriamente considerando l'esistenza e, ancora più sorprendente, l'interazione tra universi paralleli. Questa teoria rivoluzionaria, pubblicata sulla prestigiosa rivista Physical Review X, sfida le fondamenta della meccanica quantistica e potrebbe riscrivere la nostra comprensione del cosmo.

Il professor Howard Wiseman e il dottor Michael Hall del Centro per la Dinamica Quantistica della Griffith University, insieme al dottor Dirk-Andre Deckert dell'Università della California, hanno compiuto un passo audace portando il concetto di mondi paralleli fuori dal regno della fantascienza e ancorandolo al solido terreno della scienza.

Il team propone che non siamo soli in un unico universo, ma che esistano innumerevoli altri mondi, alcuni quasi identici al nostro, altri radicalmente diversi. La vera novità sta nell'idea che questi universi non siano entità separate e isolate, ma che interagiscano attraverso una sottile forza di repulsione. Questa interazione, secondo i ricercatori, potrebbe fornire una spiegazione elegante per i comportamenti "bizzarri" che da sempre perseguitano la meccanica quantistica.

La meccanica quantistica, la teoria che descrive il mondo a livello atomico e subatomico, è notoriamente difficile da interpretare. Fenomeni come la sovrapposizione e l'entanglement sembrano sfidare la nostra logica quotidiana, tanto che persino il grande fisico Richard Feynman ammise di non comprenderla appieno.

L'approccio dei "Molti Mondi che Interagiscono", sviluppato presso la Griffith University, offre una prospettiva inedita. Come spiega il professor Wiseman, l'idea di universi paralleli nella meccanica quantistica non è nuova, risalendo all'"interpretazione a molti mondi" del 1957. Questa interpretazione suggeriva che ogni volta che avviene una misurazione quantistica, l'universo si divide in molteplici realtà, ognuna corrispondente a un possibile risultato. Tuttavia, i critici hanno sempre obiettato che questi altri universi, non avendo alcun effetto sul nostro, rimanessero puramente teorici.

È qui che l'approccio dei "Molti Mondi che Interagiscono" si distingue radicalmente. Il professor Wiseman e i suoi colleghi postulano che:

  • Esistono un numero immenso di mondi, alcuni quasi identici al nostro, la maggior parte molto diversi.

  • Tutti questi mondi sono ugualmente reali, esistenti continuamente nel tempo e dotati di proprietà ben definite.

  • Tutti i fenomeni quantistici emergono da una forza universale di repulsione tra i mondi "vicini", una forza che tende a renderli sempre più dissimili.

Il dottor Hall sottolinea come questa teoria apra anche la straordinaria possibilità di verificare l'esistenza di altri mondi. "La bellezza del nostro approccio è che, se esiste un solo mondo, la nostra teoria si riduce alla meccanica newtoniana, mentre se esiste un numero gigantesco di mondi, essa riproduce la meccanica quantistica. Ma soprattutto, predice qualcosa di nuovo che non è presente né nella teoria di Newton né nella teoria dei quanti."

I ricercatori ritengono che questa nuova immagine mentale dei fenomeni quantistici possa essere cruciale per progettare esperimenti volti a testare e sfruttare le peculiarità del mondo quantistico. Inoltre, la capacità di approssimare l'evoluzione quantistica utilizzando un numero finito di mondi potrebbe avere implicazioni significative in campi come la dinamica molecolare, fondamentale per comprendere le reazioni chimiche e l'azione dei farmaci.

Il professor Bill Poirier, chimico teorico alla Texas Tech University, ha commentato con entusiasmo: "Si tratta di grandi idee, non solo concettualmente, ma anche per quanto riguarda le nuove scoperte numeriche che sono quasi certo genereranno."

Sebbene la strada per la conferma sperimentale sia ancora lunga e impegnativa, la teoria dei "Molti Mondi che Interagiscono" rappresenta un passo audace verso una comprensione più profonda della realtà. L'idea che il nostro universo sia solo uno di una miriade, e che questi mondi possano influenzarsi reciprocamente, apre orizzonti inesplorati e ci spinge a riconsiderare i limiti di ciò che consideriamo possibile. Il confine tra fantascienza e realtà potrebbe essere molto più labile di quanto abbiamo mai immaginato.


mercoledì 30 aprile 2025

Il Meccanismo di Antikythera: una mente babilonese in un corpo greco?

Un viaggio tra archeologia, astronomia e ingegneria per svelare il vero volto del più misterioso congegno dell'antichità.

Nel cuore del Mar Egeo, al largo dell’isola greca di Antikythera, giace il relitto di una nave romana naufragata oltre duemila anni fa. Tra le sue anfore e le statue in bronzo, nel 1901 fu rinvenuto un oggetto di straordinaria complessità: una massa incrostata che, una volta ripulita, rivelò un meccanismo fatto di ruote dentate in bronzo, quadranti incisi e ingranaggi sovrapposti. Un dispositivo che non avrebbe dovuto esistere. Eppure era lì, adagiato nel silenzio degli abissi. Oggi lo conosciamo come il Meccanismo di Antikythera, e le sue implicazioni continuano a ridisegnare i confini della conoscenza antica.

Soprannominato da alcuni “il primo computer analogico della storia”, il Meccanismo di Antikythera è una macchina astronomica costruita con una precisione che sfida i limiti tecnici del I secolo a.C. Azionata da una manovella, muoveva oltre 30 ingranaggi interconnessi in modo da simulare il moto del Sole, della Luna e di alcuni pianeti, seguendo la traiettoria dello zodiaco. Era capace di prevedere le eclissi, visualizzare i cicli lunari e persino indicare le date dei giochi panellenici — inclusi i Giochi Olimpici.

Fin dalla sua scoperta, archeologi e storici della scienza hanno dibattuto sull’origine e sulla funzione del meccanismo. Alcuni lo hanno attribuito all’eredità di Archimede, morto nel 212 a.C., altri a Ipparco di Nicea, padre della trigonometria e dell’astronomia greca. Ma un recente studio firmato da Christian Carman (Università di Quilmes, Argentina) e James Evans (Università di Puget Sound, USA) ha gettato una nuova luce sul mistero, suggerendo che le sue radici teoriche affondano molto più a est: nella Babilonia astronomica.

Lo studio di Carman ed Evans si è concentrato sul retro del meccanismo, dove è inciso un calendario lunare che tiene traccia dei cicli Saros ed Exeligmos, fondamentali per la previsione delle eclissi. Analizzando i dati, i due studiosi hanno scoperto che le previsioni contenute nel meccanismo si allineano sorprendentemente bene con i metodi computazionali babilonesi, che non si basavano sulla trigonometria — come in seguito faranno i greci — ma su regole aritmetiche semplici e sequenziali.

Se questi modelli sono stati effettivamente applicati nel dispositivo, significa che le osservazioni astronomiche babilonesi non erano solo conosciute in ambito greco, ma utilizzate attivamente come base per la progettazione. Un’ipotesi che solleva interrogativi profondi sull’origine stessa del sapere scientifico ellenistico.

A rafforzare la tesi babilonese è la datazione rivista del dispositivo. Le analisi delle iscrizioni suggeriscono che il meccanismo sia stato costruito intorno al 205 a.C., solo sette anni dopo la morte di Archimede. Questo colloca la sua progettazione in un’epoca in cui la cultura ellenistica era in pieno fermento e i contatti tra mondo greco e Medio Oriente si erano intensificati a seguito delle conquiste di Alessandro Magno.

Il meccanismo di Antikythera è spesso descritto come un oggetto senza pari, ma la sua esistenza suggerisce piuttosto che fosse parte di una tradizione oggi perduta. Alcuni testi antichi, come il Commentario al Phaenomena di Arato di Gemino, o il De Re Publica di Cicerone, parlano di sfere celesti e orologi astronomici complessi. Archimede stesso, secondo il racconto di Tito Livio, avrebbe costruito un globo meccanico capace di replicare il moto celeste.

Questi riferimenti, fino a poco tempo fa ritenuti esagerazioni letterarie, oggi assumono una nuova credibilità alla luce delle prove fisiche rappresentate dal meccanismo. È plausibile che altri dispositivi simili siano esistiti, ma non sopravvissuti al tempo.

Negli ultimi anni, grazie a tecniche di imaging avanzato — come la tomografia computerizzata a raggi X — è stato possibile “decifrare” molte delle componenti interne del meccanismo senza danneggiarlo. Queste analisi hanno permesso di mappare l’intero sistema di ingranaggi, confermando la straordinaria precisione del dispositivo.

Nel frattempo, sono state avviate nuove spedizioni archeologiche sul sito del relitto, guidate da istituti come il Woods Hole Oceanographic Institution. La speranza è che nuove immersioni portino alla luce frammenti ancora sconosciuti o oggetti simili, capaci di completare il puzzle. Il tempo sul fondale, però, è tiranno: il sito è profondamente instabile, e le finestre per operare sono brevi e rischiose.

Se il Meccanismo di Antikythera rappresenta un’anomalia, è perché obbliga a rivedere l’intera narrazione dello sviluppo tecnologico. La sua progettazione implica una comprensione avanzatissima della meccanica, della matematica applicata e dell’astronomia, in un’epoca in cui l’Europa avrebbe impiegato oltre un millennio per recuperare una simile raffinatezza.

Più che un caso isolato, il meccanismo appare oggi come il frutto della convergenza di due grandi civiltà: quella babilonese, maestra nell’osservazione del cielo, e quella greca, geniale nella costruzione teorica e nella meccanizzazione del sapere.

Il Meccanismo di Antikythera non è solo un oggetto archeologico: è un manifesto, inciso nel bronzo, della sofisticazione scientifica del mondo antico. Più lo studiamo, più ci accorgiamo che l’idea moderna di progresso lineare è una semplificazione: esistono salti, creste luminose di ingegno che si stagliano contro il tempo.

Forse non sapremo mai con certezza chi progettò questo straordinario calcolatore celeste. Ma ogni dente di ingranaggio che oggi ruota in un laboratorio, ogni replica costruita in vetro o in Lego, è un omaggio alla visione di chi, ventidue secoli fa, cercò di mettere l’universo… in una scatola di bronzo.


martedì 29 aprile 2025

Mondi paralleli, l’ipotesi prende forma: la fisica teorica spiega perché potrebbero davvero esistere

 

È un’ipotesi che da decenni alimenta la narrativa fantascientifica e la speculazione filosofica, ma ora potrebbe trovare un solido appiglio nella fisica teorica. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Physical Review X, la possibilità che esistano mondi paralleli non è solo materia per romanzieri o registi, ma potrebbe costituire una spiegazione plausibile – e matematicamente formalizzata – per alcuni dei più sconcertanti fenomeni della meccanica quantistica.

Il team di ricerca, guidato da fisici della Griffith University di Brisbane (Australia) in collaborazione con l’Università della California a Davis, ha sviluppato un modello teorico noto come Many Interacting Worlds (MIW) – “Molti mondi che interagiscono” – che si propone come alternativa all’interpretazione quantistica più celebre: quella dei “Molti Mondi” di Hugh Everett III, formulata nel 1957.

Mentre l’interpretazione di Everett ipotizzava che ogni possibile esito di un evento quantistico desse origine a un universo distinto che si sviluppa in parallelo agli altri, il modello MIW elimina la necessità della “diramazione” infinita. Secondo gli scienziati australiani, esisterebbero già molteplici mondi indipendenti che coesistono e si influenzano attraverso una forza di repulsione. È questa interazione tra universi vicini a generare gli effetti quantistici osservabili, come l’indeterminatezza della posizione di una particella subatomica o il comportamento duale della luce, che si manifesta sia come onda sia come particella.

“Nel nostro modello, ogni universo è reale e autonomo, ma non isolato”, spiega il professor Howard Wiseman, direttore del Centre for Quantum Dynamics della Griffith University. “È l’interazione tra questi universi paralleli a generare il comportamento apparentemente bizzarro che la meccanica quantistica ci impone di accettare”.

Il gruppo di ricerca ha sviluppato simulazioni basate su 41 mondi paralleli e ha dimostrato come questo schema teorico riesca a riprodurre alcuni dei risultati più noti della fisica quantistica, inclusi esperimenti fondamentali come quello della doppia fenditura, che dimostra la dualità onda-particella della luce. Il fatto che la luce – e per estensione altre particelle – possa comportarsi in modi incompatibili con l’intuizione classica, troverebbe così un’interpretazione alternativa non più fondata sull’indeterminatezza assoluta, ma su un’interazione concreta tra universi adiacenti.

Il dibattito, naturalmente, è tutt’altro che concluso. Sebbene il modello MIW offra una prospettiva coerente con le leggi della fisica, rimane confinato alla sfera teorica. Nessun esperimento attualmente è in grado di confermare direttamente l’esistenza materiale di questi mondi paralleli o delle loro interazioni. Alcuni scienziati, come lo stesso Wiseman ha ammesso in un articolo su The Conversation, restano scettici: “La difficoltà principale di molte teorie sui mondi paralleli è definire chiaramente cosa si intenda per ‘osservazione’ e determinare quando esattamente si generino nuove ramificazioni. Il nostro modello evita questo problema, ma introduce nuove sfide interpretative”.

Eppure, l’ipotesi affascina, anche per le sue possibili implicazioni filosofiche. Se esistono infiniti mondi, ciascuno con lievi differenze rispetto agli altri, allora esisterebbero versioni alternative di ciascuno di noi: un alter ego che ha scelto una strada diversa, una carriera differente, un amore mai vissuto. Un concetto che il cinema ha saputo trasformare in emozione, come dimostrano film iconici quali Sliding Doors (1998) o il più recente Everything Everywhere All at Once (2022), dove le infinite versioni dell’identità personale sono esplorate in chiave esistenziale e metafisica.

Tuttavia, la fisica non è narrativa, e i fisici non sono narratori. La loro ambizione non è intrattenere, ma spiegare la natura della realtà. In quest’ottica, l’ipotesi dei mondi paralleli interagenti si inserisce in un lungo percorso che, da oltre un secolo, tenta di decifrare l’enigma della meccanica quantistica: una teoria straordinariamente precisa nelle sue previsioni sperimentali, ma ancora avvolta nel mistero concettuale.

In effetti, il cuore della meccanica quantistica resta il paradosso. Celebre è l’esperimento mentale del “gatto di Schrödinger”, ideato nel 1935: un felino chiuso in una scatola, vivo e morto allo stesso tempo fino all’apertura del contenitore, a causa dell’indeterminatezza dello stato quantistico. Interpretazioni come quella dei “Molti Mondi” o, ora, quella dei “Molti Mondi Interagenti”, cercano di fornire un contesto più razionale a questi dilemmi, ponendo la questione in termini di realtà multiple anziché di probabilità.

Naturalmente, il modello MIW, per quanto elegante, non è ancora verificabile sperimentalmente. Nessun rivelatore quantistico ha ancora catturato un segnale proveniente da un altro universo. E forse, mai lo farà. Ma la forza della scienza non risiede solo nella verifica, bensì anche nella capacità di generare modelli che aprano nuovi orizzonti alla comprensione.

Nel frattempo, l’idea che la nostra realtà possa essere solo una delle tante continua a esercitare un fascino irresistibile. Se confermata, non solo cambierebbe per sempre la nostra visione del cosmo, ma riformulerebbe in profondità anche il nostro concetto di identità, libertà e destino.

Forse, in un altro mondo, la conferma è già arrivata.



lunedì 28 aprile 2025

L’Iran e il Vaticano tra Scienza e Fantasia: la lunga ombra delle “Macchine del Tempo”

Nel cuore dell’Iran, un ingegnere trentacinquenne con 179 brevetti registrati a suo nome afferma di aver progettato un dispositivo capace di guardare nel futuro. A migliaia di chilometri di distanza, nella solenne quiete dell’Abbazia di San Giorgio Maggiore a Venezia, un monaco benedettino avrebbe contribuito a costruire una macchina in grado di scrutare il passato. Due storie, separate da cultura, religione e geografia, ma unite da un filo sottile: l’irrefrenabile tentazione umana di violare i confini del tempo.

Ali Razeghi, direttore del Centro per le Invenzioni Strategiche di Teheran, ha annunciato nel 2013 la creazione della Time Aryayek Traveling Machine, un apparecchio “delle dimensioni di un personal computer” in grado, secondo le sue dichiarazioni, di prevedere con il 98% di accuratezza ciò che accadrà nella vita di una persona nei successivi cinque-otto anni. Non si tratta, puntualizza l’inventore, di un viaggio nel tempo nel senso classico del termine, quanto piuttosto di un dispositivo capace di “portare il futuro a voi”.

Il meccanismo, che non è mai stato presentato pubblicamente né sottoposto a revisione da parte della comunità scientifica, si baserebbe su complessi algoritmi predittivi. Una tecnologia che, se funzionante, rivoluzionerebbe non solo la scienza, ma anche la geopolitica. Razeghi ha suggerito infatti che la sua invenzione potrebbe essere usata dal governo iraniano per anticipare conflitti militari, oscillazioni dei mercati petroliferi o crisi valutarie. “Un governo che conosce il futuro può proteggersi”, ha dichiarato, suggerendo persino una produzione di massa e la futura esportazione del dispositivo.

Le affermazioni sono state accolte da scetticismo e ironia, sia dentro che fuori i confini iraniani. Diversi analisti tecnologici e accademici hanno fatto notare la mancanza di qualsiasi prova concreta a supporto della tesi di Razeghi, così come l’assenza di pubblicazioni scientifiche sottoposte a peer review. Lo stesso inventore ha ammesso che la sua creazione è stata criticata da amici e colleghi, accusato di “voler giocare a fare Dio”. A suo dire, tuttavia, la macchina rispetta i valori religiosi islamici, e l’unico ostacolo alla sua divulgazione sarebbe il timore che la Cina possa copiarla.

Se la storia di Razeghi può apparire come un curioso aneddoto contemporaneo, affonda però le sue radici in una tradizione ben più antica, che trova eco anche in ambito cristiano. Negli anni ’60, Padre Pellegrino Ernetti, esorcista e musicologo, affermò di aver contribuito alla costruzione di un congegno denominato cronovisore, capace di visualizzare eventi storici del passato. L’apparecchio, simile a un televisore, si basava — secondo quanto riferito — su un principio fisico alquanto esotico: l’idea che ogni essere umano lasci una traccia energetica, visiva e sonora, permanente nell’etere. Raccogliendo queste onde residue, la macchina sarebbe stata in grado di “ricostruire” immagini e suoni del passato con sorprendente accuratezza.

Il cronovisore fu citato pubblicamente per la prima volta dal teologo francese François Brune nel suo libro Le Nouveau Mystère du Vatican. Brune riporta conversazioni dirette con Padre Ernetti, secondo il quale il progetto fu sviluppato con la collaborazione di diversi scienziati, tra cui — incredibilmente — anche Enrico Fermi. Il dispositivo, racconta Brune, fu poi smantellato per volontà del Vaticano, preoccupato per le implicazioni etiche, teologiche e politiche che una simile invenzione avrebbe potuto comportare.

Come nel caso della macchina iraniana, anche il cronovisore non fu mai sottoposto a verifica indipendente. Nessun documento ufficiale è mai stato prodotto, né immagini o prove tangibili sono state rese pubbliche. Tuttavia, l’insistenza di Brune su dettagli, nomi e contesti ha contribuito a mantenere viva l’aura di mistero attorno al dispositivo. Per i sostenitori, la macchina avrebbe potuto risolvere definitivamente dispute storiche millenarie; per i detrattori, un’illusione alimentata dal desiderio umano di controllare ciò che per definizione sfugge a ogni controllo: il tempo.

Al di là dell’effettiva esistenza di questi strumenti, ciò che emerge con chiarezza da entrambe le vicende è il desiderio universale e trasversale — culturale, religioso, politico — di dominare la quarta dimensione. La possibilità di conoscere, o addirittura modificare, il passato e il futuro solletica da sempre l’immaginazione dell’uomo, dalla Macchina del Tempo di H.G. Wells ai laboratori segreti della Silicon Valley. Ma ogni tentativo, reale o presunto, di realizzare tale ambizione, apre scenari inquietanti.

Se potessimo davvero sapere cosa accadrà tra cinque anni, vivremmo allo stesso modo? Le nostre scelte, pur apparentemente libere, sarebbero in realtà condizionate da ciò che già conosciamo? E se potessimo osservare il passato, cosa accadrebbe alle verità consolidate della storia? Quante convinzioni, religiose o civili, resisterebbero a un’analisi oggettiva e visibile dei fatti?

Anche l’etica entra prepotentemente in gioco. Chi possiede un simile potere avrebbe una responsabilità incalcolabile. Prevedere un disastro, o testimoniarne uno avvenuto, implicherebbe la possibilità — e il dovere — di intervenire. Ma ogni intervento nel corso degli eventi apre il campo al paradosso, alla manipolazione, alla tentazione dell’onnipotenza.

Che si tratti della “Time Aryayek” di Ali Razeghi o del cronovisore di Padre Ernetti, ci troviamo di fronte a narrazioni che — pur in assenza di prove — catturano lo spirito del nostro tempo. Un’epoca in cui la tecnologia corre più veloce della riflessione etica, e in cui il confine tra ciò che è possibile e ciò che è immaginabile si fa sempre più labile. Forse, alla base di tutto, non vi è altro che un’ansia profonda, ancestrale, davanti all’incertezza. L’incertezza del futuro, la fragilità del presente, l’ambiguità del passato. E il sogno, mai sopito, di rendere il tempo — l’ultima vera barriera dell’umano — un nostro strumento.



domenica 27 aprile 2025

In India, un’antica leggenda narra che i robot custodissero le reliquie del Buddha

Una scultura che rappresenta la distribuzione delle reliquie del Buddha.



Un racconto affascinante che intreccia mito, tecnologia e scambi culturali tra Oriente e Occidente nella culla della civiltà

Nell’affascinante tessuto mitologico dell’antica India, esiste una leggenda tanto sorprendente quanto rivelatrice: quella di robot – veri e propri automi guerrieri – incaricati di custodire le sacre reliquie del Buddha in una camera sotterranea. Benché a prima vista sembri un racconto fantastico, l’affinità con le testimonianze storiche sui rapporti tra la civiltà greca e l’India antica apre a nuove riflessioni sui limiti, o meglio sull’assenza di limiti, tra scienza, fede e mito nel pensiero delle grandi civiltà antiche.

Il tentacolare Impero Maurya nel 250 a.C. circa.



La storia, tramandata attraverso testi buddisti e indù, si svolge nel periodo di due grandi sovrani: Ajatasatru, che regnò tra il 492 e il 460 a.C., e Asoka, imperatore del vasto impero Maurya nel III secolo a.C. Dopo la morte del Buddha, il re Ajatasatru avrebbe nascosto le sue reliquie in un luogo segreto nei pressi della sua capitale, Pataliputta (oggi Patna), facendole sorvegliare non da semplici guardie umane ma da macchine animate – automi da guerra, chiamati bhuta vahana yanta, ovvero “dispositivi per il movimento degli spiriti”.

Una statua di Visvakarman, l’ingegnere dell’universo.



Questi custodi meccanici – capaci di muoversi autonomamente e dotati di armi rotanti – sono descritti con dettagli straordinari nei Lokapannatti, una raccolta di testi pali conservata in Birmania, che a sua volta si basa su più antiche tradizioni orali e fonti sanscrite oggi perdute. In questi racconti, il loro ingegnoso meccanismo trae origine dalla mitica terra di Roma-visaya, nome indiano per la cultura greco-romana. Lì, nella terra degli Yavanas – i “greci” – vivevano i yantakara, costruttori di automi, i cui segreti erano così gelosamente custoditi da essere protetti da robot assassini pronti a eliminare chiunque tentasse di esportare tali conoscenze.

Secondo la leggenda, un giovane artigiano indiano di Pataliputta, spinto dalla curiosità e dall’ambizione, si reincarna nella terra di Roma-visaya, sposa la figlia di un maestro costruttore e ne apprende l’arte segreta. Ma consapevole del destino che lo attende, decide di nascondere i progetti sotto la propria pelle, cucendoli letteralmente nella coscia prima di affrontare il viaggio di ritorno. Come previsto, viene ucciso, ma suo figlio riesce a riportarne il corpo in patria e a completare l’opera: i robot di difesa vengono costruiti, e le reliquie del Buddha rimangono celate e protette nel silenzio della storia.

Due secoli dopo, il leggendario Asoka – figura storica che trasformò il buddhismo in religione di stato e promosse la costruzione di numerosi stupa – scopre l’esistenza della camera segreta. Secondo alcune versioni della leggenda, Asoka ingaggia una violenta battaglia contro gli automi, riuscendo infine a dominarli con l’aiuto del dio Visvakarman, architetto dell’universo, oppure grazie al sapere trasmesso dal figlio dell’antico artigiano.

Iscrizioni in greco e aramaico su un monumento originariamente eretto dal re Asoka a Kandahar, nell’odierno Afghanistan.



Sebbene gli studiosi collocano la redazione scritta di questa leggenda in epoca medievale, durante l’influenza islamica o bizantina, molti elementi suggeriscono origini molto più antiche. Già nel V secolo a.C. l’India intratteneva rapporti con il mondo greco, che si intensificarono dopo le conquiste di Alessandro Magno. Documenti archeologici, come le iscrizioni bilingue in greco e aramaico sui pilastri di Asoka ritrovati in Afghanistan, attestano non solo il dialogo culturale, ma anche uno scambio tecnico e artistico tangibile. Ambasciatori come Megastene e Deimaco soggiornarono a lungo a Pataliputta, ammirando l’eleganza e l’ingegnosità delle strutture locali.

È legittimo quindi domandarsi: il mito dei robot custodi è pura finzione, o cela una memoria condivisa, trasfigurata poeticamente, di scambi tecnologici e meraviglie meccaniche reali? Dopotutto, la Grecia ellenistica conosceva automi alimentati da pressione idraulica e ingranaggi, come quelli descritti da Erone di Alessandria, e gli antichi testi sanscriti indiani parlano di macchine animate nei toni riservati a realtà straordinarie ma plausibili.

Non sapremo mai con certezza quanto ci sia di vero nei racconti dei bhuta vahana yanta, ma quel che emerge è una verità più profonda: già nell’antichità, l’umanità immaginava macchine intelligenti, affidando loro non solo compiti bellici o pratici, ma ruoli sacri, di custodia spirituale e simbolica. È questa intuizione – la possibilità che l’ingegno meccanico possa servire la fede, e che il mito possa contenere il germe della scienza – a rendere eterna e affascinante la leggenda dei robot al servizio del Buddha.

Come tutte le grandi storie, essa ci interroga non solo sul passato, ma sul futuro: quale sarà il ruolo dell’intelligenza artificiale nella custodia delle nostre eredità più preziose? E chi, domani, scriverà le leggende delle nostre macchine?







 
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