Nel cuore dell’Iran, un ingegnere trentacinquenne con 179
brevetti registrati a suo nome afferma di aver progettato un
dispositivo capace di guardare nel futuro. A migliaia di chilometri
di distanza, nella solenne quiete dell’Abbazia di San Giorgio
Maggiore a Venezia, un monaco benedettino avrebbe contribuito a
costruire una macchina in grado di scrutare il passato. Due storie,
separate da cultura, religione e geografia, ma unite da un filo
sottile: l’irrefrenabile tentazione umana di violare i confini del
tempo.
Ali Razeghi, direttore del Centro per le Invenzioni Strategiche di
Teheran, ha annunciato nel 2013 la creazione della Time Aryayek
Traveling Machine, un apparecchio “delle dimensioni di un
personal computer” in grado, secondo le sue dichiarazioni, di
prevedere con il 98% di accuratezza ciò che accadrà nella vita di
una persona nei successivi cinque-otto anni. Non si tratta,
puntualizza l’inventore, di un viaggio nel tempo nel senso classico
del termine, quanto piuttosto di un dispositivo capace di “portare
il futuro a voi”.
Il meccanismo, che non è mai stato presentato pubblicamente né
sottoposto a revisione da parte della comunità scientifica, si
baserebbe su complessi algoritmi predittivi. Una tecnologia che, se
funzionante, rivoluzionerebbe non solo la scienza, ma anche la
geopolitica. Razeghi ha suggerito infatti che la sua invenzione
potrebbe essere usata dal governo iraniano per anticipare conflitti
militari, oscillazioni dei mercati petroliferi o crisi valutarie. “Un
governo che conosce il futuro può proteggersi”, ha dichiarato,
suggerendo persino una produzione di massa e la futura esportazione
del dispositivo.
Le affermazioni sono state accolte da scetticismo e ironia, sia
dentro che fuori i confini iraniani. Diversi analisti tecnologici e
accademici hanno fatto notare la mancanza di qualsiasi prova concreta
a supporto della tesi di Razeghi, così come l’assenza di
pubblicazioni scientifiche sottoposte a peer review. Lo stesso
inventore ha ammesso che la sua creazione è stata criticata da amici
e colleghi, accusato di “voler giocare a fare Dio”. A suo dire,
tuttavia, la macchina rispetta i valori religiosi islamici, e l’unico
ostacolo alla sua divulgazione sarebbe il timore che la Cina possa
copiarla.
Se la storia di Razeghi può apparire come un curioso aneddoto
contemporaneo, affonda però le sue radici in una tradizione ben più
antica, che trova eco anche in ambito cristiano. Negli anni ’60,
Padre Pellegrino Ernetti, esorcista e musicologo, affermò di aver
contribuito alla costruzione di un congegno denominato cronovisore,
capace di visualizzare eventi storici del passato. L’apparecchio,
simile a un televisore, si basava — secondo quanto riferito — su
un principio fisico alquanto esotico: l’idea che ogni essere umano
lasci una traccia energetica, visiva e sonora, permanente nell’etere.
Raccogliendo queste onde residue, la macchina sarebbe stata in grado
di “ricostruire” immagini e suoni del passato con sorprendente
accuratezza.
Il cronovisore fu citato pubblicamente per la prima volta dal
teologo francese François Brune nel suo libro Le Nouveau Mystère
du Vatican. Brune riporta conversazioni dirette con Padre
Ernetti, secondo il quale il progetto fu sviluppato con la
collaborazione di diversi scienziati, tra cui — incredibilmente —
anche Enrico Fermi. Il dispositivo, racconta Brune, fu poi
smantellato per volontà del Vaticano, preoccupato per le
implicazioni etiche, teologiche e politiche che una simile invenzione
avrebbe potuto comportare.
Come nel caso della macchina iraniana, anche il cronovisore non fu
mai sottoposto a verifica indipendente. Nessun documento ufficiale è
mai stato prodotto, né immagini o prove tangibili sono state rese
pubbliche. Tuttavia, l’insistenza di Brune su dettagli, nomi e
contesti ha contribuito a mantenere viva l’aura di mistero attorno
al dispositivo. Per i sostenitori, la macchina avrebbe potuto
risolvere definitivamente dispute storiche millenarie; per i
detrattori, un’illusione alimentata dal desiderio umano di
controllare ciò che per definizione sfugge a ogni controllo: il
tempo.
Al di là dell’effettiva esistenza di questi strumenti, ciò che
emerge con chiarezza da entrambe le vicende è il desiderio
universale e trasversale — culturale, religioso, politico — di
dominare la quarta dimensione. La possibilità di conoscere, o
addirittura modificare, il passato e il futuro solletica da sempre
l’immaginazione dell’uomo, dalla Macchina del Tempo di
H.G. Wells ai laboratori segreti della Silicon Valley. Ma ogni
tentativo, reale o presunto, di realizzare tale ambizione, apre
scenari inquietanti.
Se potessimo davvero sapere cosa accadrà tra cinque anni,
vivremmo allo stesso modo? Le nostre scelte, pur apparentemente
libere, sarebbero in realtà condizionate da ciò che già
conosciamo? E se potessimo osservare il passato, cosa accadrebbe alle
verità consolidate della storia? Quante convinzioni, religiose o
civili, resisterebbero a un’analisi oggettiva e visibile dei fatti?
Anche l’etica entra prepotentemente in gioco. Chi possiede un
simile potere avrebbe una responsabilità incalcolabile. Prevedere un
disastro, o testimoniarne uno avvenuto, implicherebbe la possibilità
— e il dovere — di intervenire. Ma ogni intervento nel corso
degli eventi apre il campo al paradosso, alla manipolazione, alla
tentazione dell’onnipotenza.
Che si tratti della “Time Aryayek” di Ali Razeghi o del
cronovisore di Padre Ernetti, ci troviamo di fronte a narrazioni che
— pur in assenza di prove — catturano lo spirito del nostro
tempo. Un’epoca in cui la tecnologia corre più veloce della
riflessione etica, e in cui il confine tra ciò che è possibile e
ciò che è immaginabile si fa sempre più labile. Forse, alla base
di tutto, non vi è altro che un’ansia profonda, ancestrale,
davanti all’incertezza. L’incertezza del futuro, la fragilità
del presente, l’ambiguità del passato. E il sogno, mai sopito, di
rendere il tempo — l’ultima vera barriera dell’umano — un
nostro strumento.