sabato 4 dicembre 2021

Teschio di cristallo

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Un teschio di cristallo è una rappresentazione di un teschio umano ricavata da blocchi di cristallo di quarzo trasparente.
Alcuni di questi manufatti furono dichiarati reperti archeologici mesoamericani precolombiani dai loro pretesi scopritori. Nessuno degli esemplari resi disponibili per studi scientifici è stato tuttavia autenticato come di origine precolombiana. I risultati di questi studi dimostrano che erano stati realizzati alla metà dell'Ottocento e in periodi successivi, quasi certamente in Europa. Malgrado varie opere di letteratura popolare lascino intendere il contrario, le leggende sui teschi di cristallo non sono presenti nelle mitologie dei popoli mesoamericani o di altri nativi americani.
Da alcuni appartenenti del movimento New Age sono stati attribuiti ai teschi fenomeni paranormali, come anche in varie opere di fantasia; tra queste rappresentazioni, quella del film del 2008 Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. I teschi di cristallo sono apparsi in serie televisive di fantascienza, romanzi, fumetti, e videogiochi. Nuovi teschi ricavati dal cristallo vengono prodotti e venduti regolarmente.

Storia

I primi teschi di cristallo compaiono sulla scena nell'Ottocento. Il British Museum ne possiede uno dal 1897. Anche la Smithsonian Institution ha un teschio, donato ad essa nel 1992. Nessun teschio di cristallo proviene da scavi documentati.
Tra i teschi posseduti da privati, è particolarmente famoso il teschio "Mitchell-Hedges". Secondo il racconto di Frederick Albert Mitchell-Hedges e della figlia adottiva Anna sarebbe stato trovato negli anni venti del XX secolo in una spedizione a Lubaantun, nell'Honduras Britannico (attuale Belize). Non vi è però traccia della scoperta del teschio nei resoconti della spedizione ed è dubbio anche che Anna vi abbia preso parte. Inoltre la ricercatrice Jane Maclaren Walsh ha scoperto che negli anni quaranta Mitchell-Hedges acquistò un teschio di cristallo.
Tra i più noti teschi di cristallo ci sono quelli chiamati "Max" e "Sha Na Ra". "Max", di proprietà dei coniugi Parks, sarebbe stato trovato in Guatemala negli anni Venti, ma anche in questo caso non c'è alcuna documentazione a sostegno di tale affermazione. "Sha Na Ra" sarebbe stato trovato in Messico da Nick Nocerino, personaggio televisivo autodefinitosi "esperto di teschi di cristallo". Nocerino non rivelò mai l'origine del ritrovamento, giustificandosi con l'attribuire la riservatezza a presunte "questioni di sicurezza per il personale coinvolto, a causa della situazione politica messicana". Né i teschi, né gli altri oggetti che Nocerino avrebbe rinvenuto, sono mai stati sottoposti ad analisi indipendenti.
Negli anni ottanta, sull'onda della moda lanciata dalle pubblicazioni su questi manufatti, comparvero numerosi altri teschi, dal Texas a Los Angeles; ad alcuni di questi venivano attribuite origini avventurose o poteri taumaturgici, ma di nessuno di questi si è potuta provare l'autenticità (mentre alcuni sono risultati veri e propri tentativi di truffa). Secondo i cultori dei teschi di cristallo, di tali oggetti si parlerebbe nelle tradizioni dei Maya e di altre culture native americane, ma queste asserzioni sono da ascrivere piuttosto ad un folclore degli ultimi decenni applicato retrospettivamente.
Nel 1970 il teschio Mitchell-Hedges venne affidato al laboratorio della Hewlett-Packard, guidato da Frank Dorland, in quanto centro di eccellenza per la ricerca sui cristalli. I risultati vennero pubblicati in un articolo dal titolo "history or hokum?" dove il secondo termine possiamo tradurlo con "nonsenso". In esso risulta soltanto che sia stato scolpito in un blocco unico di materiale e ne ha stabilito esclusivamente la tecnica di lavorazione, ritenuta compatibile con un'origine precolombiana del manufatto. L'articolo conclude che si tratti di un bellissimo pezzo artistico, ma che non ci sia modo di datarlo. Non risponde inoltre a verità che "gli scienziati affermarono alla fine della analisi che il teschio sembrava essere stato scolpito con un moderno laser o con ceselli di precisione". Da notare che gli impieghi ablativi del laser si sarebbero avuti solo negli anni novanta.
Nel 1996 i teschi del British Museum e della Smithsonian Institution sono stati sottoposti ad analisi presso il British Museum, rivelando segni di lavorazione con strumenti disponibili nell'Europa della seconda metà dell'Ottocento. Anche questo elemento suggerisce che si tratti di falsi fabbricati in tale periodo. In quell'occasione erano stati portati anche i teschi "Max" e "Sha Na Ra" (mentre Anna Mitchell Hedges aveva rifiutato di portare il suo), ma il British Museum, in applicazione della propria norma di non fornire valutazioni su oggetti provenienti da collezioni private, non ha espresso alcun giudizio su di essi.
In passato, intorno al teschio inglese si erano catalizzati racconti folcloristici quanto infondati, che suggerivano che il teschio si muovesse all'interno della teca. Anche il fatto che il teschio fosse stato rimosso dall'esposizione aperta al pubblico è una leggenda urbana: il teschio è oggi esposto all'interno della prima sala dell'ala sinistra, sul lato sinistro della parete dove si apre la porta d'ingresso.
In particolare, per l'esemplare esaminato, si è riusciti a risalire ad una probabile origine tedesca della lavorazione, mentre la roccia cristallina è di origine brasiliana. Ricerche documentali negli scritti relativi alle collezioni del museo, hanno portato a identificare nell'antiquario francese Eugène Boban l'organizzatore di questo traffico di falsi. Altri teschi furono analizzati insieme a quello del British, tra cui quelli di Nocerino e quelli americani. Nessuno di questi teschi aveva evidenze che potessero supportare una presunta antichità, mentre anzi le probabilità spingevano a pensare ad un'origine molto più moderna.





venerdì 3 dicembre 2021

Vaso di Dorchester

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Il vaso di Dorchester è un vaso metallico (probabilmente una lega di zinco e argento) che sarebbe stato trovato durante alcuni lavori edili a Dorchester, nel Massachusetts (USA), nel 1851, incluso in uno strato di pietra che alcuni affermano risalire a circa 320 milioni di anni fa. Per questo motivo viene citato come un OOPArt. Le circostanze del suo ritrovamento sono molto dubbie.
La prima fonte documentata che fa riferimento al vaso di Dorchester è il numero 38 della rivista Scientific American del 5 giugno 1852. Il trafiletto dello Scientific American riportava a sua volta un articolo di un altro giornale, il Transcript di Boston:
Alcuni giorni fa è stata prodotta una potente esplosione nella roccia della Meeting House Hill, nel quartiere di Dorchester, pochi isolati a sud della sala conferenze del Rev. Sig. Hall. L'esplosione ha prodotto un'immensa quantità di pietrame, alcuni pezzi del peso di alcune tonnellate, e ha scagliato frammenti più piccoli in tutte le direzioni. Tra questi è stato raccolto un vaso metallico separato in due pezzi, per la frattura provocata dall'esplosione. Le due parti riunite formano un vaso a forma di campana, alto 11,4 cm, largo 16,5 cm alla base e 6,3 cm in cima, e di circa tre millimetri di spessore.[...]
L'articolo del Transcript proseguiva descrivendo le decorazioni del vaso ("sei figure di un fiore, o un bouquet, splendidamente intarsiato nell'argento puro, e attorno alla parte bassa una pergola, o tralcio, intarsiata anch'essa nell'argento"), e affermava che il vaso sarebbe stato trovato sepolto in una roccia puddinga, a circa 4.63 metri di profondità. L'articolo del Transcript si chiudeva con la domanda:
Non c'è alcun dubbio che questa curiosità era saltata fuori dalla roccia, come sopra detto; ma vuole il Professor Agassiz, o qualche altro scienziato, dirci per favore come questo è arrivato lì? L'argomento è degno d'investigazione, perché in questo caso non vi è alcun inganno.
Lo Scientific American chiudeva invece l'articolo con un commento ironico e scettico nei confronti del ritrovamento:
Quanto sopra proviene dal Transcript di Boston e quello che ci stupisce è come il Transcript può supporre che il Prof. Agassiz sia qualificato a dirci come sia arrivato lì più di John Doyle, il fabbro ferraio. Non si tratta di una questione di zoologia, botanica o geologia, ma una questione relativa ad un antico vaso metallico, forse fatto da Tuba-Cain, il primo abitante di Dorchester.
L'ultima frase è un riferimento ironico a Tubal-Cain, figlio di Adamo ed Eva, indicato nella Bibbia come il primo fabbro dell'umanità.
La roccia puddinga da cui si afferma essere stato estratto il vaso è un conglomerato basaltico formatosi in epoche preistoriche (Devoniano superiore o Permiano).
Secondo lo scopritore, il vaso sarebbe stato inglobato nella roccia al momento della sua formazione, e pertanto il reperto avrebbe almeno 100.000 anni, essendo dunque in contrasto con la storia dell'uomo fino ad allora conosciuta (sarebbe, quindi, un OOPArt). Tuttavia le circostanze del ritrovamento (la presunta "esplosione", l'assenza di documenti verificabili e le testimonianze giornalistiche poco affidabili), non permettono di avere nessuna certezza sul fatto che il vaso fosse incluso nella roccia.
Secondo i sostenitori dell'origine misteriosa, le piante della decorazione dell'oggetto rappresenterebbero esemplari dello Sphenophyllum laurae, una pianta fossile risalente al Carbonifero superiore.
L'argomento presuppone tuttavia che la decorazione del vaso costituisca una rappresentazione realistica di una pianta, mentre nel campo decorativo è assai più comune utilizzare forme vegetali stilizzate senza alcun diretto riferimento a oggetti realmente esistenti.
L'articolo originale, inoltre, non conteneva alcuna foto dell'oggetto, che appare invece, senza alcuna informazione sulla fonte, solo negli articoli recenti. Inoltre, l'oggetto della foto è decorato con quattro grandi fiori mentre nell'articolo del 1852 si parla di sei fiori. L'aspetto del vaso fotografato, che non mostra alcuna frattura o danno, fa pensare ad un comune candeliere realizzato nello stile dell'epoca.
Con il tempo il vaso scomparve. Diverse sono le interpretazioni: i sostenitori della sua autenticità sostengono una tesi complottista secondo cui la scomparsa sarebbe dovuta alla volontà di nascondere l'autenticità dell'artefatto da parte del "mondo scientifico", mentre gli scettici sono convinti che la scomparsa sia da attribuirsi al fatto che gli autori abbiano ritenuto che la bufala avrebbe potuto essere scoperta con delle analisi condotte sull'oggetto.
Un'ulteriore elemento a favore della tesi della bufala è il fatto che il vaso sarebbe stato trovato nel basalto, quindi in una roccia di origine magmatica proveniente dalle profondità della crosta terrestre. Il basalto nel mantello si trova in fusione a temperature comprese tra 3000 e 4000 °C, con temperatura media di 3700°C. Nessun metallo mantiene comportamento duttile a quelle temperature, nemmeno le leghe di rame-tungsteno il cui punto di fusione è di 3410 °C, e che sono solide solo a temperature inferiori ai 1080°C. Queste sono ad oggi considerate come i metalli dal punto di fusione più alto.
Per comparazione, il presunto metallo del vaso non potrebbe rimanere solido oltre i 1030 °C, e avrebbe comportamento duttile al di sopra dei 960°C.
Il debunker Biagio Catalano fa notare come il "vaso" risulti quasi identico, quanto a forma e decorazioni, a un poggiapipa indiano, allora conservato al Chhatrapati Shivaji Maharaj Vastu Sangrahalaya (ex Prince of Wales Museum) di Mumbai, così come raffigurato nel libro "Arte indiana" (Arnoldo Mondadori Editore, 1964), di K. Bharatha Iyer (v. fig. 81, tavole fuori testo; v. indice t.f.t. pag. 142).

giovedì 2 dicembre 2021

Uomo nero

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L’uomo nero è una creatura leggendaria, un essere amorfo, cattivo e oscuro presente nella tradizione di vari paesi. Negli Stati Uniti d'America è conosciuto come boogeyman (scritto anche bogeyman, boogyman o bogyman). Presso Portogallo e paesi ispanofoni tale figura è conosciuta col nome di El Coco. In Italia viene identificato anche con la figura del Babau.
L'uomo nero è un demone o uno spirito, ha l'aspetto di un uomo o di un fantasma ma nero, non ha gambe e dalla vita in giù sfuma in una punta. Fino al XX secolo la sua figura veniva accennata ai bambini che alla sera non volevano dormire; li si minacciava, infatti di chiamare l'uomo nero nel caso non avessero chiuso gli occhi e non si fossero addormentati come i parenti volevano.
È spesso sostituito dal babau; nel sud Italia ed in particolare in Puglia è spesso usato invece "vecchio col sacco", un fantasma con i compiti simili al tradizionale uomo nero, anche se a volte anche gli spiriti dispettosi della casa (l'Aùre o Avùrie, o lo Scazzamurrhieddru o Scazzamurrill), mentre in Sardegna è noto come mommottu, mommotti o anche bobotti.
Sarebbe stato creato dalle madri americane per spaventare i bambini e impedire loro di fare azioni avventate e non alzarsi per girovagare durante la notte. Numerose sono le canzoncine presenti negli Stati Uniti in merito a questo personaggio degli incubi.
Il nome Boogeyman deriva, probabilmente, dalla parola inglese Bogman usata per indicare uomini che, banditi dalle loro comunità erano costretti a rifugiarsi nelle torbiere, territori paludosi non reclamati da nessuno, in inglese Bogs. Tali terreni, molto diffusi in Inghilterra, sono invece alquanto rari negli Stati Uniti, soprattutto nelle colonie originali, pertanto l'espressione cessò di essere comprensibile e si deformò in Boogeyman.
Un'altra interpretazione la fa derivare dai bogie, spiriti meschini che vivrebbero nell'ombra. Tali creature possono trovarsi nei granai, nelle cantine e in tutti quei luoghi polverosi dove la gente tiene le cose che non vuole buttare via.
Diffuso nel New Mexico, Colorado, America Latina, Portogallo e Galizia; l'uomo nero (o meglio ancora El Coco) è raffigurato come uno spirito antropomorfo con una testa di zucca ed interessato a rapire i bambini disubbidienti.
Il nome Coco (o Coca) è derivabile dalla parola portoghese/spagnola coco (testa).
La parola coco però indica anche il cocco: si dice che tale ominimia sia attribuile ai marinai di Vasco de Gama, ai quali tale frutto esotico ricordava la fantomatica creatura leggendaria.

mercoledì 1 dicembre 2021

Ursus arctos piscator

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L'orso di Bergman (Ursus arctos piscator Bergman, 1920) è una presunta sottospecie di orso bruno, probabilmente estinta, che viveva nella Penisola di Kamchatka. Venne identificato e battezzato dallo zoologo svedese Sten Bergman nel 1920.
Bergman ritenne che si trattava di una distinta sottospecie dopo aver esaminato una pelle (la cui pelliccia era molto diversa da quella degli altri orsi del luogo) ed una serie di impronte di 36,8 x 25,4 centimetri che giudicò molto più grandi di quelle degli altri orsi della Kamchatka.
Alcuni pensano che la Guerra Fredda possa aver aiutato la popolazione ad aumentare di numero, dato che in quel periodo l'Esercito Sovietico aveva bloccato l'accesso all'area.
L'interesse riguardo a quest'orso tornò alla ribalta durante gli anni '60. Il cacciatore Rodion Sivobolov riportò testimonianze di alcuni nativi della Kamchatka riguardo ad un orso insolitamente grande che chiamavano sia Irkuiem (che tradotto alla lettera significa «calzoni tirati giù» a causa dell'aspetto delle zampe posteriori) od «Orso Divino», per le sue grandi dimensioni.
Sulla base della descrizione di Sivobolov, il biologo N. K. Vereshchagin ha suggerito che gli orsi divini potrebbero trattarsi di esemplari relitti di Arctodus simus, un gigantesco orso ormai estinto. Quest'ipotesi però è stata accolta con freddezza dalla comunità scientifica; i resti di Arctodus non sono mai stati trovati al di fuori delle Americhe e, cosa più importante, quest'orso apparteneva ai Tremarctini, che differiscono considerevolmente nell'aspetto dagli orsi «tipici» (Ursini). In particolare, i Tremarctini hanno zampe lunghe e più snelle (secondo gli standard degli orsi), caratteristica che non concorda con il nomignolo di «calzoni tirati giù».

martedì 30 novembre 2021

Vetrificazione dei forti

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La vetrificazione dei forti è un processo chimico-fisico indotto dall'alta temperatura a cui, in epoca preistorica, venivano esposti i muri in pietra delle fortificazioni sommitali europee, secondo un'usanza che si colloca nell'età del ferro nord-europea.
Il fenomeno fu descritto per la prima volta nel 1777 da John Williams, uno dei primi geologi britannici, in base all'evidenza osservabile di grandi residui di roccia vetrificata, colata come dopo un raffreddamento, ma le questioni sollevate da questa osservazione sono oggetto di dibattito e di controversie e rimangono ancora in buona parte inspiegate e aperte alla discussione scientifica. Gli studiosi, ad esempio, concordano sul fatto che la vetrificazione dovette avvenire mediante esposizione a un'intensa fonte di calore già in età preistorica e non in un'epoca successiva, ma rimangono insolute e dibattute le domande sul perché le mura fortificate venissero sottoposte a una "vetrificazione" e sul come questo avvenisse.
In particolare, non è chiaro come venisse prodotta l'esposizione all'alta temperatura necessaria a determinare la parziale o totale fusione dell'opera muraria, paragonabile a quella rinvenibile in un vulcano, i cui effetti si conservano nell'aspetto esteriore di vetro colato e solidificato per raffreddamento: più nello specifico, si è appurato che dovrebbe parlarsi di "alte temperature", al plurale, vista la natura mutevole delle rocce usate, di volta in volta, nella costruzione dei forte (in genere di provenienza locale), da cui conseguivano variazioni anche notevoli nelle temperature da raggiungere, nell'ordine di uno o due centinaia di gradi centigradi.
Il fenomeno delle rocce vetrificate occorre in molti luoghi d'Europa ma la regione in cui doveva essere più diffuso, e nella quale sopravvivono gli esempi più noti è la Scozia, la prima regione d'Europa in cui tali resti archeologici furono rivenuti.
Riguardo alla natura delle rocce, si trattava, a seconda della disponibilità locale, di rocce metamorfiche, rocce ignee, o rocce sedimentarie.

lunedì 29 novembre 2021

C'è qualche prova che le anime esistono?


Abbiamo un'anima? E se sì, è misurabile?

Nel 1907, un medico del Massachusetts di nome Duncan MacDougall dimostrò l'esistenza dell'anima umana. Si chiama teoria dei 21 grammi.

Ha misurato il peso di una persona al momento della morte. Aveva 6 pazienti che hanno sperimentato una perdita di peso con una perdita di peso media di 21 grammi...

Ha registrato non solo l'ora esatta della morte di ogni paziente, ma anche il tempo totale trascorso a letto, nonché eventuali variazioni di peso che si sono verificate intorno al momento dell'espirazione.

Ha anche preso in considerazione le perdite di fluidi corporei come sudore e urina e gas come ossigeno e azoto nei suoi calcoli. La sua conclusione fu che l'anima umana pesava tre quarti di oncia, o 21 grammi.

I risultati dello studio di MacDougall apparvero sul New York Times nel marzo 1907.

L'idea che l'anima pesi 21 grammi è apparsa in romanzi, canzoni e film: è stato anche il titolo del film che Dan Brown ha descritto gli esperimenti di MacDougall in dettaglio nel suo film d'avventura The Lost Symbol.


domenica 28 novembre 2021

Una possessione che ha risolto un errore giudiziario

Un giorno di gennaio del 1939, la diciassettenne Maria Talarico camminava per una via di Catanzaro, in compagna della nonna. Nell’attraversare un ponte, Maria di colpo si fermò, fissò l’argine del fiume e si accasciò a terra.

Riprese i sensi solo quando fu ricondotta a casa e a quel punto lasciò di sasso i familiari rivolgendosi alla madre con voce maschile. “Tu non sei mia madre. Mia madre vive nella casetta di legno, si chiamava Caterina Veraldi. Io sono Pepe”.



Pepe Veraldi si era suicidato gettandosi nel fiume circa tre anni prima, il 13 febbraio 1936 ed il suo corpo era stato ritrovato sotto il ponte dove Maria era svenuta. Le cose presero una piega ancor più strana quando arrivò la madre di Veraldi e Maria dichiarò: “Sono stati i miei amici a uccidermi, spingendomi giù dal ponte. Poi mi hanno colpito con una sbarra di ferro e hanno tentato di far passare il delitto per un suicidio”.

Poi Maria si precipitò fuori di casa, giunse al ponte e saltò dal parapetto, gridando: “Lasciatemi in pace! Perché mi picchiate?” Sull’argine, la ragazza giaceva svenuta nella stessa posizione in cui era stato rinvenuto il cadavere di Veraldi. La madre del morto si avvicinò a Maria e ordinò al figlio di lasciare il corpo della giovane. Ella riaprì gli occhi, si guardò attorno e si rialzò. Pepe se n’era andato.

Il rapporto di polizia sulla morte di Veraldi formulava il sospetto che costui fosse morto proprio nel modo descritto dalla ragazza, ma gli amici del defunto non erano più in Calabria.

Ma nel 1951, Luigi Marchete, uno degli amici di Pepe, scrisse alla madre del giovane confessando l’assassinio: l’aveva aggredito con una sbarra di ferro perché insidiava la compagna, e dopo aver tentato di inscenare un suicidio insieme a tre amici, era fuggito in Argentina.

Per sgravarsi la coscienza, lasciava tutta la fortuna che aveva accumulato alla madre della vittima.


 
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