domenica 28 novembre 2021

Una possessione che ha risolto un errore giudiziario

Un giorno di gennaio del 1939, la diciassettenne Maria Talarico camminava per una via di Catanzaro, in compagna della nonna. Nell’attraversare un ponte, Maria di colpo si fermò, fissò l’argine del fiume e si accasciò a terra.

Riprese i sensi solo quando fu ricondotta a casa e a quel punto lasciò di sasso i familiari rivolgendosi alla madre con voce maschile. “Tu non sei mia madre. Mia madre vive nella casetta di legno, si chiamava Caterina Veraldi. Io sono Pepe”.



Pepe Veraldi si era suicidato gettandosi nel fiume circa tre anni prima, il 13 febbraio 1936 ed il suo corpo era stato ritrovato sotto il ponte dove Maria era svenuta. Le cose presero una piega ancor più strana quando arrivò la madre di Veraldi e Maria dichiarò: “Sono stati i miei amici a uccidermi, spingendomi giù dal ponte. Poi mi hanno colpito con una sbarra di ferro e hanno tentato di far passare il delitto per un suicidio”.

Poi Maria si precipitò fuori di casa, giunse al ponte e saltò dal parapetto, gridando: “Lasciatemi in pace! Perché mi picchiate?” Sull’argine, la ragazza giaceva svenuta nella stessa posizione in cui era stato rinvenuto il cadavere di Veraldi. La madre del morto si avvicinò a Maria e ordinò al figlio di lasciare il corpo della giovane. Ella riaprì gli occhi, si guardò attorno e si rialzò. Pepe se n’era andato.

Il rapporto di polizia sulla morte di Veraldi formulava il sospetto che costui fosse morto proprio nel modo descritto dalla ragazza, ma gli amici del defunto non erano più in Calabria.

Ma nel 1951, Luigi Marchete, uno degli amici di Pepe, scrisse alla madre del giovane confessando l’assassinio: l’aveva aggredito con una sbarra di ferro perché insidiava la compagna, e dopo aver tentato di inscenare un suicidio insieme a tre amici, era fuggito in Argentina.

Per sgravarsi la coscienza, lasciava tutta la fortuna che aveva accumulato alla madre della vittima.


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