«Unguento unguento
portami al noce di Benevento sopra l'acqua e sopra il vento e sopra ogni altro maltempo.» |
(Formula magica
che molte donne accusate di stregoneria riferirono durante i
processi.)
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Il Noce di Benevento era un
antico e frondoso albero di noce consacrato al dio germanico Odino,
intorno al quale si riuniva una comunità di Longobardi stanziati nei
pressi di Benevento a partire dal VI secolo, nei territori
originariamente abitati dai Sanniti. La celebrazione di riti pagani e
religiosi, che prevedevano si appendesse al noce una pelle di capro,
ha dato vita a varie leggende che si sono perpetuate nei secoli,
riguardante cerimonie e rituali magici officiati da streghe in
occasione di sabba.
Storia
Il luogo in cui sorgeva il noce era
peraltro già stato teatro di incantesimi, ed evocativo di atmosfere
occulte.
Il culto di Iside
Sin dall'epoca romana, infatti, si era
diffuso per un breve periodo a Benevento il culto di Iside, dea
egizia della magia; l'imperatore Domiziano aveva anche fatto erigere
un tempio in suo onore. All'interno di questo culto, Iside faceva
parte di una sorta di Trimurti, cioè assumeva un triplice aspetto:
veniva infatti identificata anche con Ecate, dea degli inferi, e
Diana, dea della caccia. Il culto di Iside sta probabilmente alla
base di elementi di paganesimo che perdurarono nei secoli successivi:
le caratteristiche di alcune streghe sono ricollegabili a quelle di
Ecate, ed inoltre lo stesso nome con cui viene indicata la strega a
Benevento, janara, sembra possa derivare da quello di Diana.
I rituali longobardi
Il protomedico beneventano Pietro
Piperno nel suo saggio Della superstitiosa noce di Benevento (1639,
traduzione dall'originale in latino De Nuce Maga Beneventana) fa
risalire le radici della leggenda delle streghe al VII secolo.
All'epoca Benevento era capitale di un ducato longobardo e gli
invasori, pur formalmente convertitisi al cattolicesimo, non
rinunciarono alla loro religione tradizionale pagana. Sotto il duca
Romualdo essi adoravano una vipera d'oro (forse alata, o con due
teste), che probabilmente ha qualche relazione con il culto di Iside
di cui sopra, dato che la dea era capace di dominare i serpenti.
Cominciarono a svolgere un rito singolare nei pressi del fiume Sabato
che i Longobardi erano soliti celebrare in onore di Wotan, padre
degli dèi: veniva appesa, ad un albero sacro, la pelle di un
caprone. I guerrieri si guadagnavano il favore del dio correndo
freneticamente a cavallo attorno all'albero colpendo la pelle con le
lance, con l'intento di strapparne brandelli che poi mangiavano. In
questo rituale si può riconoscere la pratica del diasparagmos, il
dio sacrificato e fatto a pezzi, che diviene pasto rituale dei
fedeli.
I beneventani cristiani avrebbero
collegato questi riti esagitati alle già esistenti credenze
riguardanti le streghe: le donne e i guerrieri erano ai loro occhi le
lamie, il caprone l'incarnazione del diavolo, le urla riti
orgiastici. Un sacerdote di nome Barbato accusò esplicitamente i
dominatori longobardi di idolatria. Secondo la leggenda, nel 663 il
duca Romualdo, essendo Benevento assediata dalle truppe
dell'imperatore bizantino Costante II, promise a Barbato di
rinunciare al paganesimo se la città - e il ducato - fossero stati
risparmiati. Costante si ritirò (secondo la leggenda, per grazia
divina) e Romualdo fece Barbato vescovo di Benevento. Barbato stesso
abbatté l'albero sacro e ne strappò le radici, facendo costruire
nel posto una chiesa, chiamata Santa Maria in Voto. Romualdo continuò
ad adorare in privato la vipera d'oro, finché la moglie Teodorada la
consegnò a Barbato che la fuse ottenendo un calice per l'eucaristia.
Tale leggenda non collima esattamente
con i dati storici: nel 663 era duca di Benevento Grimoaldo, mentre
Romualdo I sarebbe subentrato al predecessore, divenuto nel frattempo
re dei Longobardi, soltanto nel 671; inoltre, la moglie di Romualdo I
si chiamava Teuderada (Theuderada) e non Teodorada, che era
invece la moglie di Ansprando e madre di Liutprando. In ogni caso,
Paolo Diacono non fa alcun cenno alla leggenda, né a una presunta
fede pagana di Romualdo, molto più probabilmente di credo ariano
come il padre Grimoaldo. Le riunioni sotto il noce, uno dei tratti
salienti della leggenda delle streghe, provengono quindi molto
probabilmente da queste usanze longobarde; tuttavia si ritrovano
anche nelle pratiche di culto di Artemide (la dea greca in parte
assimilabile ad Iside) svolte nella città di Caria.
Nei secoli successivi la leggenda delle
streghe prese corpo. A partire dal 1273 tornarono a circolare
testimonianze di riunioni stregonesche a Benevento. In base alle
dichiarazioni di tale Matteuccia da Todi, processata per stregoneria
nel 1428, esse si svolgevano sotto un albero di noce, e si credette
che fosse l'albero che doveva essere stato abbattuto da San Barbato,
forse risorto per opera del demonio. Più tardi, nel XVI secolo,
sotto un albero furono rinvenute ossa spolpate di fresco: andava
creandosi un'aura di mistero attorno alla faccenda, che diveniva
gradualmente più complessa.
Il noce
Secondo le testimonianze delle presunte
streghe, il noce doveva essere un albero alto, sempreverde e dalle
qualità nocive. Sono svariate le ipotesi sull'ubicazione della Ripa
delle Janare, il luogo sulla riva del Sabato dove si sarebbe
trovato il noce. La leggenda non esclude che potessero essere più di
uno. Pietro Piperno, pur proponendosi di smentire la diceria, inserì
nel suo saggio una piantina che indicava una possibile collocazione
del rinato noce di San Barbato, nonché della vipera d'oro
longobarda, nelle terre del nobile Francesco di Gennaro, dove era
stata apposta un'iscrizione per ricordare l'opera del santo. Altre
versioni vogliono il noce posto in una gola detta Stretto di Barba,
sulla strada per Avellino, dove si trova un boschetto fiancheggiato
da una chiesa abbandonata, o in un'altra località di nome Piano
delle Cappelle. Ancora, si parla della scomparsa Torre Pagana,
sulla quale fu costruita una cappella dedicata a San Nicola dove il
santo avrebbe fatto numerosi miracoli.
I sabba e i malefìci
La leggenda vuole che le streghe,
indistinguibili dalle altre donne di giorno, di notte si ungessero le
ascelle (o il petto) con un unguento e spiccassero il volo
pronunciando una frase magica (riportata all'inizio della pagina), a
cavallo di una scopa di saggina o, secondo altre versioni, in groppa
ad un «castrato negro» voltandogli le spalle. Contemporaneamente le
streghe diventavano incorporee, spiriti simili al vento: infatti le
notti preferite per il volo erano quelle di tempesta. Si credeva
inoltre che ci fosse un ponte in particolare dal quale le streghe
beneventane erano solite lanciarsi in volo, il quale perciò prese il
nome di ponte delle janare, distrutto durante la seconda
guerra mondiale.
Ai sabba sotto il noce prendevano però
parte streghe di varia provenienza. Questi consistevano di banchetti,
danze, orge con spiriti e demoni in forma di gatti o caproni, e
venivano anche detti giochi di Diana.
Dopo le riunioni, le streghe seminavano
l'orrore. Si credeva che fossero capaci di causare aborti, di
generare deformità nei neonati facendo loro patire atroci
sofferenze, che sfiorassero come una folata di vento i dormienti, e
fossero la causa del senso di oppressione sul petto che a volte si
avverte stando sdraiati. Si temevano anche alcuni dispetti più
"innocenti", per esempio che facessero ritrovare di mattina
i cavalli nelle stalle con la criniera intrecciata, o sudati per
essere stati cavalcati tutta la notte. In alcuni piccoli paesini
campani, tra gli anziani circolano ancora voci secondo cui le streghe
di Benevento, di notte, rapiscano i neonati dalle culle per
passarseli tra loro, gettandoli sul fuoco, e terminato il gioco li
riportino lì dove li avevano presi.
Le janare, grazie alla loro consistenza
incorporea, entravano in casa passando sotto la porta (in
corrispondenza con un'altra possibile etimologia del termine da
ianua, porta). Per questo si era soliti lasciare una scopa o
del sale sull'uscio: la strega avrebbe dovuto contare tutti i fili
della scopa o i grani di sale prima di entrare, ma nel frattempo
sarebbe giunto il giorno e sarebbe stata costretta ad andarsene. I
due oggetti hanno un valore simbolico: la scopa è un simbolo fallico
contrapposto alla sterilità portata dalla strega, il sale si
riconnette con una falsa etimologia alla Salus.
ProprietÃ
Alberi sacri a Giove, i noci hanno
sempre goduto di particolari attribuzioni: dall'aspetto ambivalente,
sia diurno che notturno, erano considerati portatori di un potere
curativo, che poteva tuttavia diventare nocivo se non trattato
adeguatamente. Ai suoi frutti erano attribuite qualità arcane,
capaci di ridestare impulsi sessuali, per il loro guscio affine alle
gonadi maschili; e d'altra parte la loro forma interna ricorda quella
del cervello umano, e dunque usati, secondo la dottrina delle
segnature, per guarire i mali di testa. Ancora oggi ad esempio il
noce è uno dei fiori di Bach, denominato walnut.
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