La janara nelle credenze popolari
dell'Italia meridionale e in particolare dell'area di Benevento, è
una delle tante specie di streghe che popolavano i racconti
appartenenti soprattutto alla tradizione del mondo agreste e
contadino.
Il nome potrebbe derivare da Dianara,
ossia «sacerdotessa di Diana», dea romana della Luna, oppure dal
latino ianua, «porta»: era appunto dinanzi alla porta, che, secondo
la tradizione, era necessario collocare una scopa, oppure un
sacchetto con grani di sale; la strega, costretta a contare i fili
della scopa, o i grani di sale, avrebbe indugiato fino al sorgere del
sole, la cui luce pare fosse sua mortale nemica.
La Leggenda
Secondo le più antiche leggende, le
streghe beneventane si riunivano sotto un immenso noce lungo le
sponde del fiume Sabato; invocate da una cantilena, che recitava
"'nguento 'nguento, mànname a lu nocio 'e Beneviente, sott'a
ll'acqua e sotto ô viento, sotto â ogne maletiempo", esse
tenevano i loro sabba in cui veneravano il demonio sotto forma di
cane o caprone.
La janara usciva di notte e si
intrufolava nelle stalle dei cavalli per prendere una giumenta e
cavalcarla per tutta la notte. Avrebbe avuto inoltre l'abitudine di
fare le treccine alla criniera della giovane cavalla rapita,
lasciando così un segno della sua presenza. Capitava a volte che la
giumenta sfinita dalla lunga cavalcata non sopportasse lo sforzo
immane a cui era stata sottoposta, morendo di fatica. Per evitare il
rapimento delle giumente si era soliti, nel passato e ancora oggi,
piazzare un sacco di sale o una scopa davanti alle porte delle
stalle, poiché la janara non poteva resistere alla tentazione di
contare i grani di sale o i fili della scopa e mentre lei fosse stata
intenta nella conta sarebbe venuto il giorno e sarebbe dovuta
fuggire.
La janara solitamente era una esperta
in fatto di erbe medicamentose, ed ella sapeva riconoscere tra le
altre anche quelle con poteri narcotici oppure stupefacenti, che
usava nelle sue pratiche magiche, come la fabbricazione dell'unguento
che le permetteva di diventare incorporea con la stessa natura del
vento. Contrariamente a tutte le altre streghe, la janara era
solitaria e tante volte, anche nella vita di tutti i giorni, aveva un
carattere aggressivo e acido.
Secondo la tradizione, per poterla
acciuffare bisognava afferrarla per i capelli, il suo punto debole. A
quel punto, alla domanda "che tie' 'n mano?", cioè "cosa
hai tra le mani?" bisognava rispondere "fierro e acciaro"
in modo che non si potesse liberare; se al contrario si fosse
risposto "capiglie'", cioè capelli, la Janara avrebbe
risposto "e ieo me ne sciulie comme a n'anguilla", cioè me
ne scivolo via come un'anguilla, e si sarebbe così liberata dandosi
alla fuga. Inoltre si diceva che a chi fosse riuscito a catturare la
janara quando era incorporea ella avrebbe offerto la protezione delle
janare sulla famiglia per sette generazioni in cambio della libertà.
Si accreditava alle janare anche la
sensazione di soffocamento che a volte si prova durante il sonno, si
pensava infatti che la janara si divertisse a saltare sulle persone
cercando di soffocarle, si diceva che questo accadesse soprattutto ai
giovani uomini. Inoltre si riteneva che i bambini che avessero
manifestato improvvisamente deformazioni nel fisico, fossero stati
nottetempo passati attraverso il treppiede che si usava nel focolare
per sostenere il calderone. "La janara ll'è passato dinto 'u
trepète", trad.: "La janara lo ha fatto passare attraverso
il treppiede".
Fondamenti storici
Probabilmente la leggenda nacque nel
periodo del regno longobardo su Benevento, poiché anche se quasi
tutti gli abitanti della città si erano convertiti al cristianesimo,
alcuni veneravano ancora in segreto gli Dei pagani in particolare le
Dee Iside, Diana ed Ecate il cui culto è ancora testimoniato da
monumenti sparsi per la città.
Dopo l'arrivo dei longobardi anch'essi
pagani, forse alcuni dei pagani rimasti si unirono a loro nel culto
degli alberi presente nella religione longobarda e nel culto della
vipera dorata cara ad Iside, da qui forse nacquero le leggende delle
orge infernali che si tenevano le notti di sabato sotto l'enorme
noce.
Storie legate alle
janare
In ogni paesino del Sannio beneventano
esistono svariate storie sulle janare ma bisogna ammettere che queste
si assomigliano molto tra di loro, variando spesso solo per il luogo
in cui è avvenuto il fatto e per il dialetto in cui viene
raccontato, ovviamente ogni paesino ha la sua strega. Di seguito ci
sono alcune di quelle più ricorrenti.
Fu trovato qui un foglio che narra di
un boscaiolo beneventano passando di notte per uno di questi posti
ebbe lo spiacere di assistere al sabba, cerimonia in cui si venerava
Satana e ogni simbolo cristiano veniva messo al contrario. Egli,
corso a casa, raccontò alla moglie tutto ciò che aveva visto:
«C'erano donne che calpestavano la croce, altre che con alcuni
uomini si dedicavano alle orge più sfrenate e altre ancora che si
cospargevano di sangue. In mezzo a tutto ciò ho visto un cane
orrendo che sedeva su un trono ...». La mattina dopo quell'uomo fu
trovato ucciso.
Altra storia correlata alla figura
della janara è quella che identifica un metodo pressoché
infallibile per riconoscerle quando sono in sembianza umana: secondo
questa diceria, basta recarsi alla messa della notte di Natale e, una
volta terminata, uscire ed attendere per vedere le ultime donne che
abbandonano la chiesa. Secondo la storia queste sarebbero le janare
che, in forma umana, hanno assistito (per una sorta di contrappasso
mistico-religioso) alla funzione più sacra di tutta la cristianità.
Le altre streghe di
Benevento
Oltre alle janare vi sono altri tipi di
streghe nell'immaginario popolare di Benevento. La Zucculara, zoppa,
infestava il Triggio, la zona del teatro romano, ed era così
chiamata per i suoi zoccoli rumorosi. La figura probabilmente deriva
da Ecate, che indossava un solo sandalo ed era venerata nei trivii
("Triggio" deriva proprio da trivium).
Vi è poi la Manalonga (=dal braccio
lungo), che vive nei pozzi, e tira giù chi passa nelle vicinanze. La
paura dei fossi, immaginati come varchi verso gli inferi, è un
elemento ricorrente: nel precipizio sotto il ponte delle janare vi è
un laghetto in cui si creano improvvisamente gorghi, che viene
chiamato il gorgo dell'inferno. Infine vi sono le Urie, spiriti
domestici che ricordano i Lari e i Penati della romanità.
Nelle credenze popolari la leggenda
delle streghe sopravvive in parte ancora oggi, arricchendosi di
aneddoti e manifestandosi in atteggiamenti superstiziosi e paure di
eventi soprannaturali.
La persecuzione
Le persecuzioni delle streghe possono
considerarsi iniziate con le prediche di San Bernardino da Siena, che
nel XV secolo predicò aspramente contro di loro, con particolare
riferimento a quelle di Benevento. Spesso egli le additava al popolo
come responsabili delle sciagure, e senza mezzi termini affermava che
dovevano essere sterminate.
Un'ulteriore spinta alla caccia alle
streghe venne data dalla pubblicazione, nel 1486, del Malleus
Maleficarum, che spiegava come riconoscere le streghe, processarle ed
interrogarle efficacemente tramite le più crudeli torture. In questo
modo, tra il XV e il XVII secolo furono estorte numerose confessioni
di supposte streghe, le quali più volte parlano di sabba a
Benevento. Si ritrovano elementi comuni come il volo, pratiche come
quella di succhiare il sangue dei bambini, tuttavia si trovano
discrepanze circa, per esempio, la frequenza delle riunioni. Nella
massima parte dei casi le "streghe" erano bruciate, mandate
al patibolo o comunque punite con la morte con metodi più o meno
atroci.
Solo nel XVII secolo ci si rese conto
che non potevano essere veritiere confessioni fatte sotto tortura. In
epoca illuministica si fece strada un'interpretazione razionale della
leggenda, con Girolamo Tartarotti che nel 1749 spiegò il volo delle
streghe come un'allucinazione provocata dal demonio, o Ludovico
Antonio Muratori che nel 1745 affermò che le streghe sono solo donne
malate psichicamente. Ipotesi successive vorrebbero che l'unguento di
cui le streghe si cospargevano fosse una sostanza allucinogena.
Uno storico locale, Abele De Blasio,
riferì che nell'archivio arcivescovile di Benevento erano conservati
circa 200 verbali di processi per stregoneria, in buona parte
distrutti nel 1860 per evitare di conservare documenti che potessero
infiammare ulteriormente le tendenze anticlericali che accompagnarono
l'epoca dell'unificazione italiana. Un'altra parte è andata persa a
causa dei bombardamenti nella seconda guerra mondiale.
Racconti
La storia delle streghe di Benevento è
corredata da un grande numero di racconti di diffusione popolare.
Un uomo, vedendo la moglie
cospargersi di un unguento e lanciarsi in volo dalla finestra, capì
che era una janara e sostituì l'unguento con un'altra sostanza,
cosicché la notte dopo la moglie morì schiantandosi al suolo.
San Bernardino da Siena nelle sue
prediche racconta di un famiglio di un cardinale che giunto a
Benevento si unì ad un banchetto notturno, e portò con sé una
ragazza lì conosciuta, la quale non parlò per tre anni; si scoprì
poi che era una janara.
Un racconto forse derivante da un
poemetto napoletano del XIX secolo intitolato Storia della famosa
noce di Benevento parla di un uomo che si fa condurre al sabba dalla
moglie, una janara. Chiede del sale perché il cibo è insipido, ma
appena lo condisce il sabba scompare.
Anche poeti e scrittori nonché
musicisti italiani e stranieri parlano e raccontano di streghe,
ispirandosi alla leggenda beneventana.
Lo scienziato e scrittore Francesco
Redi scrisse un racconto, intitolato Il gobbo di Peretola, in cui
narra la storia di un gobbo di questa località che, invidioso della
buona sorte toccata ad un altro gobbo guarito dalle streghe di
Benevento della sua malformazione, s'era recato senza indugio laggiù,
ma, avendo trattato male le streghe, era stato punito con l'aggiunta
d'una seconda gobba.
Nel libro Il Malmantile di Lorenzo
Lippi, nel 30° canto si parla di streghe.
Nella tragedia Macbeth di
Shakespeare, il primo atto della tragedia inizia con il parlare delle
streghe (Norne).
Nel balletto Il Noce di Benevento,
coreografia di Salvatore Viganò, musica di Franz Süssmayr (1812,
Teatro alla Scala) si parla dell'evento.
Niccolò Paganini musicò Le
streghe, variazione su un tema dal balletto Il Noce di Benevento
(1813, Teatro alla Scala).
Laurence Sterne nel romanzo Vita e
opinioni di Tristram Shandy menziona ripetutamente i «demoni di
Benevento».
Maciara
In alcuni centri della provincia di
Avellino, specialmente nell'area dell'alta Irpinia, ai confini con le
province di Foggia, Potenza e Salerno, oltre alla janara c'è pure la
maciara, talvolta è la stessa cosa. Risulta essere sorta di
stregoncella, più atta alle malocchiature dette "affascino".
Per estensione, si dice di che fa moine, cioè che fa la "maciara"
o che fa le "maciarije". Si nota la forte somiglianza del
nome come le streghe del Trentino e della provincia di Milano; in
alcune aree dell'Italia meridionale il termine è presente nella
variante magàra.
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