Nella Londra del XVIII secolo, una città in piena trasformazione, dove le carrozze affollavano le strade fangose e i caffè pullulavano di dibattiti illuministi, viveva una donna che, agli occhi della società, sembrava l’incarnazione della rispettabilità. Elizabeth Brownrigg, ostetrica devota e moglie di un rispettato imbianchino, era conosciuta come una figura affidabile, pia e laboriosa. A tal punto che persino l’Orphan Hospital — una delle istituzioni caritatevoli più importanti dell’epoca — le affidò delle giovani apprendiste da formare.
La realtà, tuttavia, era ben diversa. Dietro quella maschera di gentilezza e devozione religiosa, si celava un mostro. E quando la verità venne a galla, il suo nome sarebbe diventato sinonimo di crudeltà femminile, inciso nella memoria collettiva come monito e orrore.
Elizabeth Brownrigg nacque nel 1720 circa e, come molte donne della sua epoca, il suo destino sembrava già scritto: matrimonio, figli, devozione alla famiglia e, se possibile, un ruolo nella comunità. Londra era una città complessa e spietata, dove la povertà dilagava e gli orfanotrofi cercavano disperatamente di collocare i bambini e le ragazze abbandonate in case dove potessero ricevere istruzione e lavoro.
Fu in questo contesto che la Brownrigg seppe costruirsi un’immagine impeccabile. Ostetrica capace e apparentemente pia, si presentava come una donna affidabile, pronta a istruire giovani apprendiste e a dar loro un futuro. L’Orphan Hospital le affidò diverse ragazze, convinto che avrebbero trovato una casa sicura.
Ma quella casa si rivelò presto un luogo di sofferenza.
Dietro le porte chiuse della dimora dei Brownrigg, il volto materno di Elizabeth lasciava spazio a una crudeltà sistematica. Le ragazze che le erano state affidate non ricevevano affetto né istruzione, ma torture quotidiane.
Elizabeth infliggeva punizioni crudeli: le frustava senza pietà, le appendeva a ganci come fossero carne da macello, le privava del cibo e le costringeva a dormire sui carboni o in luoghi umidi e sporchi. Le vittime erano ridotte allo stremo, isolate e costrette al silenzio.
I vicini sentivano grida e pianti disperati. Alcuni sospettavano che qualcosa non andasse, ma in un’epoca in cui la violenza domestica era spesso ignorata o considerata affare privato, pochi osavano intervenire. L’aura di rispettabilità della donna continuava a proteggere la sua reputazione.
Tutto cambiò con Mary Clifford, una delle apprendiste affidate alla Brownrigg. La giovane subì punizioni atroci e venne progressivamente ridotta a uno scheletro vivente. Quando finalmente venne scoperta, era rinchiusa in un armadio, coperta di piaghe infette e appena viva.
Le condizioni in cui fu trovata scioccarono persino i medici abituati alla miseria di Londra. Mary morì poco dopo, e la sua vicenda sollevò un’ondata di indignazione.
La giustizia non poté più ignorare quello che accadeva sotto il tetto della rispettabile ostetrica. L’opinione pubblica, fino ad allora ingannata, scoprì il lato oscuro della donna che si proclamava pia e devota.
Il processo a Elizabeth Brownrigg divenne uno degli eventi giudiziari più seguiti del XVIII secolo inglese. Le testimonianze delle ragazze sopravvissute e dei vicini rivelarono un quadro agghiacciante: abusi sistematici, violenze sadiche e un livello di crudeltà che superava persino le dure consuetudini dell’epoca.
La corte non ebbe dubbi. Elizabeth Brownrigg fu dichiarata colpevole di omicidio e condannata a morte. Il 14 settembre 1767, davanti a una folla immensa riunita a Tyburn, venne giustiziata mediante impiccagione.
Ma quella non fu una delle tante esecuzioni pubbliche a cui i londinesi erano abituati. L’odio collettivo nei confronti della donna era tale che la sua morte fu accolta da un applauso di sollievo e persino da grida di approvazione. Non ci furono lacrime né pietà. Elizabeth Brownrigg non fu ricordata come madre, né come ostetrica, né come donna devota: il suo nome divenne sinonimo di sadismo e crudeltà.
La vicenda di Elizabeth Brownrigg ebbe un’eco enorme in tutta l’Inghilterra. I giornali ne parlarono con toni sensazionalistici, i pamphlet la descrissero come il volto del male femminile, e persino le prediche religiose usarono il suo esempio come ammonimento morale.
Per secoli, il suo nome venne citato come uno dei più terribili nella cronaca nera britannica, al pari dei carnefici più spietati. Se la violenza era spesso associata a figure maschili, la Brownrigg infranse brutalmente quella convinzione, mostrando che la crudeltà non aveva genere.
La storia di Elizabeth Brownrigg rimane oggi un capitolo agghiacciante della Londra georgiana. Non si tratta soltanto di un caso di cronaca nera, ma di uno specchio crudele delle contraddizioni di un’epoca: la distanza tra l’immagine pubblica e la realtà privata, la vulnerabilità dei più deboli, la cecità di una società che troppo a lungo ignorò i segnali di allarme.
Dietro la facciata di una donna rispettabile si nascondeva un mostro. E quando quella maschera cadde, rivelò la brutalità pura, priva di rimorso.
La vicenda di Elizabeth Brownrigg non è soltanto una pagina di sangue nella storia criminale inglese, ma un ammonimento universale. Ci ricorda che la violenza più spaventosa può celarsi dietro i volti più insospettabili, e che il silenzio e l’indifferenza della comunità possono trasformarsi nei complici più pericolosi.
Nella Londra del XVIII secolo, Elizabeth Brownrigg passò alla storia non come madre, né come ostetrica, né come donna pia. Passò alla storia come il volto della crudeltà femminile, un nome che ancora oggi evoca orrore.
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