L’Egitto continua a custodire i suoi segreti con una tenacia
degna del deserto che lo avvolge. Ma, secondo una notizia che negli
ultimi anni ha acceso l’immaginario di studiosi e curiosi, dodici
colonne di ossidiana rinvenute in un sito non divulgato del
Medio Egitto conterrebbero iscrizioni nella forma più arcaica
conosciuta della lingua egizia — un alfabeto geroglifico anteriore
persino alle prime dinastie.
Se confermata, la scoperta
riscriverebbe la cronologia stessa dell’antico Egitto. Ma ciò che
più ha scosso gli archeologi è il contenuto dei testi incisi:
racconti di esseri dalla vita lunghissima, dotati di
una conoscenza perduta, e di una “città sommersa da dove sorse la
luce della civiltà”.
Per alcuni, un’allusione diretta al mito di Atlantide.
Secondo il resoconto di una missione archeologica egiziana datata
cinque anni fa, le colonne — alte circa due metri e mezzo — sono
scolpite in un materiale inconsueto per l’architettura egizia:
ossidiana vulcanica, una pietra nera e vetrosa che
non si trova in Egitto, ma in aree vulcaniche dell’Etiopia e
dell’Anatolia.
Le iscrizioni, analizzate tramite imaging
multispettrale, mostrano una forma linguistica più primitiva
dei geroglifici protodinastici. Alcuni simboli non trovano
corrispondenza né nella scrittura di Naqada né in quella di Abido,
suggerendo un’origine ancora più remota.
La traduzione preliminare di uno dei testi menzionerebbe una
popolazione definita “Popolo della Luce delle Acque
Occidentali”, i cui membri “vissero duecento anni e
dominarono il respiro del cielo e della terra”.
Altri passaggi
parlano di una “Casa della Pietra che non muore” — descrizione
che alcuni collegano ai complessi piramidali di Giza o di Saqqara.
Il mito di Atlantide, narrato da Platone nel Timeo e nel
Crizia, descrive una civiltà tecnologicamente avanzata che
scomparve a causa di una catastrofe marina intorno al 9.600
a.C.
Curiosamente, questa data coincide con la
fine dell’ultima era glaciale e con l’inizio del cosiddetto
“periodo predinastico” egiziano, quando le prime comunità lungo
il Nilo iniziarono a trasformarsi in società complesse.
Alcuni studiosi alternativi — tra cui Graham Hancock e Robert
Schoch — sostengono che i costruttori della Grande Piramide e della
Sfinge potessero essere eredi di una civiltà perduta
precedente all’Egitto storico, sopravvissuti di un
cataclisma globale che avrebbe distrutto Atlantide.
Le colonne
d’ossidiana, in questa lettura, non sarebbero altro che
testimonianze dirette di quella civiltà “madre”,
portata in Egitto da viaggiatori che ricostruirono, sulle rive del
Nilo, il sapere dei loro antenati scomparsi.
Il riferimento a esseri dalla longevità eccezionale
— due o tre volte quella media umana — ricorre anche nei Testi
delle Piramidi, dove i “Neteru”, gli dèi, sono descritti come
uomini dalle ossa d’oro e dal sangue di fuoco.
Gli
antichi Egizi attribuivano a queste figure una padronanza tanto della
scienza quanto della spiritualità: architetti, astronomi e
sacerdoti, custodi di un sapere che univa tecnologia e
religione — ciò che oggi chiameremmo “tecno-magia”.
Le colonne d’ossidiana potrebbero rappresentare una sorta di archivio simbolico di quel sapere, un “DNA culturale” inciso nella pietra, tramandato ai discendenti che poi costruirono le prime piramidi come riflesso del cosmo e della resurrezione.
La comunità accademica mantiene un atteggiamento prudente.
Finora, nessuna pubblicazione ufficiale ha
confermato la provenienza e la datazione delle colonne, e molti
archeologi egiziani sostengono che si tratti di una leggenda
mediatica amplificata da siti pseudoscientifici.
Eppure,
i reperti — se reali — si inscriverebbero in un pattern più
ampio: quello di un sapere arcaico universale,
condiviso da civiltà distanti ma accomunate dalla stessa visione
cosmica.
Che si tratti di Atlanti sopravvissuti o di un popolo predinastico
dimenticato, le colonne d’ossidiana — reali o leggendarie — ci
ricordano che la storia dell’umanità non è mai lineare,
ma stratificata come la sabbia che ricopre il Nilo.
Ogni nuova
scoperta, vera o ipotetica, ci spinge a guardare oltre la cronologia
accettata e a domandarci quante civiltà abbiano lasciato impronte
che non abbiamo ancora saputo decifrare.
Forse, i costruttori delle piramidi non furono gli “eredi di Atlantide” nel senso letterale del termine. Ma lo furono nello spirito: eredi di un’idea antica e immortale — che la conoscenza, come la pietra, sopravvive alle maree del tempo.