Quando si pensa alla morte, si immagina spesso un confine netto. Un attimo prima si è vivi, un attimo dopo non lo si è più. Il cuore si ferma, il respiro cessa, il cervello collassa. Ma e se la morte non fosse un evento, bensì un processo lungo e inquietante, durante il quale il corpo — o almeno una parte di esso — tenta disperatamente di restare aggrappato alla vita, riscrivendo i propri codici genetici fino all’ultimo impulso molecolare?
Questa è l’ipotesi, a metà tra la scienza e l’orrore, avanzata da un gruppo di biologi molecolari: la teoria del “crepuscolo della morte”, un fenomeno finora poco noto ma che potrebbe avere implicazioni radicali non solo per la medicina, ma per la bioetica, i trapianti d’organo e perfino il nostro concetto di identità postuma.
È risaputo che il cervello e le cellule nervose richiedono ossigeno costante e iniziano a morire pochi minuti dopo l’arresto cardiaco. Cuore, fegato, reni e pancreas seguono nel giro di un’ora. Ma ecco il paradosso: alcune cellule del corpo continuano a vivere per molte ore — a volte giorni — dopo la morte clinica.
Tendini, pelle, valvole cardiache, cornee, globuli bianchi. Non solo sopravvivono, ma rimangono attive, come se non sapessero che il corpo è ormai privo di coscienza, anima, direzione.
Studi condotti su organismi animali (e, più recentemente, su tessuti umani post mortem) hanno rilevato un fenomeno sorprendente: un’intensa attività di trascrizione genica nelle ore successive alla morte. È come se i geni, abbandonati dal controllo centrale del cervello e del sistema nervoso, iniziassero a copiare se stessi freneticamente.
Questo “crepuscolo della morte” non è casuale. Alcuni dei geni che si attivano post mortem sono associati alla risposta infiammatoria, alla crescita cellulare e persino allo sviluppo embrionale. Incredibilmente, si tratta di geni attivi anche nei tumori.
Ed è qui che la teoria si fa spaventosa: potrebbero essere proprio questi geni ad aumentare il rischio di cancro nei riceventi di organi trapiantati. Non per colpa degli immunosoppressori. Non per colpa del rigetto. Ma perché le cellule dell’organo trapiantato — pur vive — sono traumatizzate dalla morte del loro ospite originale e reagiscono nel panico molecolare più profondo.
Un panico che si traduce nella trascrizione incontrollata di sequenze genetiche legate alla proliferazione, come se cercassero disperatamente una via di fuga, una nuova identità. E nel tentativo di sopravvivere... finiscono col diventare maligne.
Se questa teoria — ancora congetturale ma sostenuta da indizi sempre più solidi — venisse confermata, le implicazioni sarebbero vertiginose. Gli organi trapiantati potrebbero portare con sé l’impronta genetica della morte. Un’eco residua della volontà biologica di non cedere. Una volontà cieca, senza coscienza, che si esprime nel linguaggio freddo dell’RNA.
Immaginate: le cellule di un donatore che continuano a scrivere, a replicarsi, a difendersi dall’inesorabilità dell’oblio, anche all’interno di un nuovo corpo. Non più altruismo postumo, ma persistenza biologica ostinata, che talvolta potrebbe trasformarsi in aggressività oncogena.
Una “sindrome di Lazzaro” cellulare, non più spirituale ma biochimica, con effetti che stiamo solo cominciando a comprendere.
Se questo scenario inquieta, è perché spezza la dicotomia tra vita e morte che ci dà sicurezza. Ci mostra che la morte non è la fine ordinata che immaginiamo, ma un caos molecolare in cui il corpo lotta, si ribella, si trasforma. E forse, a modo suo, combatte per esistere ancora, anche in un’altra persona.
Oggi sappiamo che nel corpo umano, il confine tra il silenzio eterno e il tumulto biologico è molto più labile di quanto credessimo.
In quel crepuscolo silenzioso, mentre il cuore si è fermato e la coscienza è svanita, qualcosa dentro di noi continua a scrivere. Non poesia. Ma codici. Sequenze. Ordini disperati.
E questa voce genetica, sorda e immortale, potrebbe non tacere nemmeno quando pensiamo che tutto sia ormai finito.