giovedì 18 settembre 2025

L’evoluzione dei cerchi nel grano: quando la scienza incontra il mistero

Per decenni i cerchi nel grano hanno alimentato leggende, ipotesi paranormali e teorie extraterrestri. Figure geometriche perfette, apparse improvvisamente nella notte in campi di cereali, sono state interpretate come messaggi di civiltà aliene, manifestazioni spirituali o scherzi di buontemponi. Ma oggi, per la prima volta, anche la scienza più ortodossa sembra interessarsi al fenomeno da una prospettiva completamente diversa.
Nel numero della prestigiosa rivista Nature, un gruppo di ricercatori ha affrontato il tema con un taglio sorprendentemente evolutivo: i cerchi nel grano non come mistero da risolvere, ma come sistema complesso da comprendere.

L’articolo pubblicato su Nature non si interroga sull’origine “fisica” delle formazioni — chi li crea, come e perché — ma su come evolvano nel tempo. Il team di studiosi ha analizzato oltre trent’anni di documentazione fotografica, filmati e misurazioni geometriche dei crop circles comparsi in Inghilterra, Italia e Stati Uniti, identificando pattern di sviluppo progressivo.
Ciò che è emerso è un’evidente complessificazione nel disegno: dai primi cerchi elementari degli anni Settanta si è passati a figure sempre più articolate — spirali, mandala, forme frattali e persino rappresentazioni matematiche di costanti universali come il Pi greco o la sezione aurea.

Secondo i ricercatori, questa crescita non è casuale. I cerchi nel grano sembrano seguire una vera e propria “evoluzione culturale”, analoga a quella delle specie viventi, ma applicata al campo delle idee e delle rappresentazioni simboliche. In altre parole, ogni nuova formazione si ispira a una precedente, la imita, la modifica e la migliora, come se un “gene culturale” — un meme, direbbe Richard Dawkins — si replicasse nei campi, mutando di generazione in generazione.

Il fulcro dello studio è un modello computazionale sviluppato presso l’Università di Cambridge, che utilizza algoritmi di morfogenesi e auto-organizzazione per simulare la formazione di figure geometriche complesse a partire da regole semplici. Lo stesso principio si trova in natura nella disposizione dei petali di un fiore o nella ramificazione dei cristalli.

Applicato ai cerchi nel grano, il modello mostra come un gruppo di agenti — che possono essere persone, fenomeni fisici o processi imitativi — possa generare configurazioni simmetriche e coerenti senza un piano predefinito. È il cosiddetto effetto emergente: il tutto è più della somma delle sue parti.

Ciò che più ha sorpreso i ricercatori è la somiglianza strutturale tra l’evoluzione dei crop circles e i meccanismi di adattamento darwiniano. Le figure “riuscite” (quelle più esteticamente armoniche o mediaticamente impattanti) vengono replicate e diffuse; quelle meno interessanti vengono dimenticate. In questo modo, il linguaggio simbolico dei cerchi si affina, diventa più complesso, quasi come se stesse “imparando” da sé.

L’approccio evolutivo non sminuisce il fascino dei cerchi nel grano, anzi lo amplifica. Se da un lato l’ipotesi extraterrestre perde consistenza, dall’altro il fenomeno acquista una nuova dignità culturale e scientifica. I cerchi diventano opere collettive di arte effimera, nate dall’interazione fra uomo, natura e tecnologia, e rappresentano una delle più straordinarie forme di comunicazione simbolica contemporanea.

Non a caso, i ricercatori di Nature hanno messo in relazione i cerchi con altre forme di auto-organizzazione sociale: movimenti artistici nati dal basso, culture digitali open source, persino gli algoritmi evolutivi che regolano l’intelligenza artificiale.
Come scrive l’articolo:

“I cerchi nel grano rappresentano un laboratorio naturale dove osservare la nascita, l’imitazione e la trasformazione delle idee. Sono una forma primitiva di intelligenza collettiva.”

Molti dei cerchi più complessi incorporano proporzioni matematiche di straordinaria precisione. La presenza costante di figure come il fiore della vita, la spirale aurea o la stella a sei punte ha spinto alcuni studiosi a ipotizzare un livello di consapevolezza simbolica profondo da parte degli autori.
Ma ciò che interessa alla scienza non è tanto chi crea le figure, quanto perché emergano sempre gli stessi archetipi geometrici, anche in contesti culturali differenti.

Secondo l’interpretazione evolutiva, l’essere umano tende spontaneamente a riprodurre schemi di armonia visiva che rispecchiano proporzioni naturali. È la stessa logica che guida la costruzione delle cattedrali gotiche o la struttura di un fiocco di neve: un istinto universale verso l’ordine e la simmetria.
I cerchi nel grano, in questa prospettiva, sarebbero un’espressione inconscia di un codice geometrico universale, una sorta di linguaggio comune che attraversa scienza, arte e mito.

L’analisi pubblicata su Nature non si limita ai dati geometrici, ma esplora anche la diffusione mediatica del fenomeno. Dai primi casi isolati in Inghilterra negli anni ’70, il fenomeno si è diffuso grazie ai mass media e, più recentemente, ai social network, che hanno moltiplicato la visibilità e la competizione tra autori.

Questo ha innescato una sorta di selezione culturale accelerata: figure sempre più complesse, precise e spettacolari, spesso realizzate con strumenti di misurazione avanzati e droni. In termini evolutivi, il sistema “cerchi nel grano” ha trovato nuovi habitat — dai campi reali ai feed digitali — e nuove forme di replicazione.
La complessità cresce, ma il principio resta lo stesso: imitazione, variazione, selezione.

Naturalmente, non mancano le critiche. Molti scienziati considerano l’interesse di Nature una provocazione intellettuale, più sociologica che fisica. «I cerchi nel grano», ha dichiarato un membro del Royal Institute of Science, «sono l’equivalente geometrico di una catena di Sant’Antonio: si diffondono perché attraggono l’immaginario collettivo, non perché contengano un segreto cosmico.»

Tuttavia, lo studio apre una riflessione più ampia: può la scienza occuparsi seriamente di fenomeni nati come gioco o mito popolare?
La risposta, oggi, sembra essere sì. Ogni volta che un comportamento collettivo genera strutture ordinate — che si tratti di formiche, molecole o esseri umani — la scienza ha il dovere di osservare, misurare e capire.

I cerchi nel grano continuano a comparire, ogni estate, nei campi dell’Inghilterra meridionale, in Germania, in Italia. Alcuni sono palesemente artificiali, altri così complessi da sfidare ogni spiegazione semplice. Ma il loro fascino non risiede più nella ricerca di un’origine aliena, bensì nella scoperta di un principio naturale: l’ordine può emergere dal caos, anche quando gli autori sono ignoti o inconsapevoli.

L’evoluzione dei cerchi nel grano, secondo Nature, è il riflesso di un mondo in cui le idee, come le forme, mutano e si adattano, seguendo regole invisibili ma universali. Forse, come suggerisce l’articolo, “la vera intelligenza extraterrestre è quella che costruiamo insieme, sulla Terra, senza accorgercene”.

In fondo, i cerchi nel grano ci ricordano una verità antica: la natura, la mente e la cultura umana condividono lo stesso impulso a creare figure, a cercare significati, a dare forma al mistero.
Non servono UFO per spiegare la meraviglia: basta osservare come l’ordine cresce, cerchio dopo cerchio, nel vasto campo dell’immaginazione umana.




mercoledì 17 settembre 2025

L’incontro Garattini–Boiron: l’omeopatia funziona, per gli altri


Un confronto che, per molti, ha segnato un punto di svolta nella percezione pubblica dell’omeopatia. Da una parte Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, simbolo della medicina basata sull’evidenza scientifica. Dall’altra Christian Boiron, amministratore delegato dell’omonima multinazionale francese e leader mondiale nella produzione di rimedi omeopatici. L’incontro, svoltosi a Milano, è diventato emblematico non solo per il contenuto, ma per una confessione inattesa che ha scosso il pubblico: “L’omeopatia funziona, ma per gli altri.”

L’evento nacque come dibattito aperto sull’efficacia terapeutica dei prodotti omeopatici, tema da sempre al centro di un acceso scontro tra scienza e credenze alternative. Garattini, noto per la sua posizione rigorosamente empirica, aprì il dialogo ribadendo che nessuna evidenza scientifica solida ha mai dimostrato che i rimedi omeopatici superino l’effetto placebo. «L’omeopatia», affermò, «si fonda su presupposti incompatibili con la chimica, la fisica e la biologia moderna. Nessun farmaco può essere efficace se, come accade in molti preparati omeopatici, non contiene alcuna molecola attiva.»

Boiron, dal canto suo, tentò di difendere la filosofia della sua azienda sottolineando il rapporto di fiducia tra medico e paziente, l’attenzione alla persona nella sua interezza e l’importanza dell’esperienza soggettiva. Ma fu proprio nel tentativo di spiegare il “mistero” dell’efficacia percepita che pronunciò una frase destinata a rimbalzare sui media:

“L’omeopatia funziona, ma non per me. Funziona per gli altri.”

In quella breve ammissione, volutamente o meno, si racchiudeva un’intera filosofia di marketing e di fede terapeutica. Boiron non dichiarava che l’omeopatia non funziona: dichiarava che funziona per chi ci crede. Era il riconoscimento implicito di ciò che gli studi clinici hanno ripetutamente mostrato: l’effetto placebo, quando supportato da convinzione, ritualità e fiducia, può produrre miglioramenti reali nella percezione dei sintomi.

Garattini colse immediatamente la contraddizione e replicò con una punta d’ironia:

“Appunto. Funziona per gli altri perché è un placebo. E i placebo, per definizione, funzionano solo se non lo sai.”

Il dibattito mise a nudo la frattura profonda tra medicina basata sull’evidenza e medicina basata sulla credenza. Garattini sottolineò la responsabilità etica dei medici e delle istituzioni nel garantire cure efficaci, verificabili e sicure. Boiron, invece, insistette sull’importanza dell’approccio olistico, della personalizzazione della cura e dell’esperienza del paziente come parte integrante del processo di guarigione.

Questa divergenza si riflette anche sul piano economico: il mercato mondiale dell’omeopatia, allora stimato in oltre due miliardi di euro, continuava a crescere nonostante le critiche, alimentato da consumatori alla ricerca di alternative “naturali” e prive di effetti collaterali. Ma, come ricordò Garattini, «assenza di effetti collaterali non significa presenza di effetti terapeutici.»

L’incontro Garattini–Boiron rimase per anni un caso emblematico citato in conferenze e articoli scientifici. Da un lato fu interpretato come un raro momento di confronto civile tra posizioni opposte; dall’altro, come la dimostrazione che, anche nel cuore dell’industria omeopatica, la consapevolezza dei limiti scientifici era nota ma taciuta.

La frase “funziona, per gli altri” divenne un simbolo della distanza tra percezione e realtà terapeutica. Ricordò al pubblico che, in medicina, la convinzione soggettiva può generare effetti psicofisiologici reali — ma non sostituisce la verifica sperimentale, né giustifica la vendita di rimedi privi di principio attivo.

A quindici anni di distanza, il dibattito tra Garattini e Boiron resta una pietra miliare nel confronto tra scienza e pseudoscienza. La domanda centrale rimane immutata: quanto contano la credenza e l’esperienza soggettiva nella guarigione?
La risposta, forse, è nella stessa ammissione di Boiron: l’omeopatia funziona — ma non per chi la produce, bensì per chi vi crede.
Un’affermazione che, pur involontariamente, ha reso più chiaro che mai il confine tra fede e medicina.


martedì 16 settembre 2025

Traffico di organi: mille bambini scomparsi. È vero?


Negli ultimi anni, le cronache italiane e internazionali sono state periodicamente scosse da notizie allarmanti: “mille bambini scomparsi”, “traffico di organi”, “reti criminali che rapiscono minori per il mercato nero”. Titoli che evocano paure arcaiche e ataviche, ma che spesso si rivelano infondati o, nella migliore delle ipotesi, basati su interpretazioni distorte dei dati. La domanda resta tuttavia legittima e inquietante: quanto c’è di vero?

L’allarme dei “mille bambini scomparsi” in Italia ha radici lontane e riaffiora ciclicamente, soprattutto sui social network e in programmi televisivi sensazionalistici. Il numero, ripetuto senza verifiche, è diventato quasi un totem mediatico. Tuttavia, i dati ufficiali raccontano una storia molto diversa.

Secondo il Commissario Straordinario per le Persone Scomparse, presso il Ministero dell’Interno, ogni anno in Italia vengono segnalate migliaia di scomparse, ma la quasi totalità riguarda minori stranieri non accompagnati che si allontanano volontariamente dalle strutture di accoglienza. La maggior parte di loro riappare in altri Paesi europei, spesso diretti verso parenti o comunità della stessa etnia.

In altre parole, non si tratta di bambini “rapiti per il traffico di organi”, ma di un fenomeno migratorio complesso e drammatico, legato alla precarietà, alla disperazione e alla clandestinità.

Il rapporto annuale del Ministero dell’Interno mostra che oltre il 70% dei minori scomparsi in Italia proviene da Paesi extraeuropei, in particolare dall’Africa subsahariana, dal Medio Oriente e dall’Asia meridionale. Solo una minima parte riguarda bambini italiani, e in quasi tutti i casi si tratta di allontanamenti familiari o di situazioni di affidamento complesso.

Nel 2024, ad esempio, su oltre 12.000 segnalazioni di minori scomparsi, più di 10.000 riguardavano stranieri, e tra questi circa 9.000 erano migranti non accompagnati. Gli scomparsi “irrisolti” (cioè quelli non ritrovati o rintracciati da altri Stati UE) sono meno del 10%.

Eppure, il mito dei “mille bambini spariti nel nulla” continua a prosperare, alimentato da post virali e servizi televisivi costruiti più per emozionare che per informare.

Il tema del traffico di organi è uno dei più potenti generatori di panico morale del nostro tempo. Ma le indagini condotte finora — sia in Italia che a livello internazionale — non hanno mai confermato alcuna rete organizzata di prelievo illegale di organi su minori nel nostro Paese.

La Interpol, l’Europol e l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconoscono l’esistenza del traffico di organi a livello globale, ma sottolineano che i casi accertati avvengono quasi esclusivamente in Paesi con sistemi sanitari fragili e fortemente corrotti, come alcune aree dell’Asia o dell’Africa. L’Italia, con un sistema trapiantologico pubblico e rigidamente regolato dal Centro Nazionale Trapianti, è uno dei Paesi più sicuri al mondo in questo ambito.

Ogni trapianto è tracciato, ogni organo ha un codice identificativo, e l’intero processo — dal prelievo al trapianto — è sottoposto a doppia verifica medico-legale.

Le bufale sui “bambini rapiti per rubare organi” non sono una novità. Già negli anni ’90 circolavano leggende simili, spesso legate all’arrivo di nuove ondate migratorie. Con l’avvento dei social, però, la velocità di diffusione è aumentata in modo esponenziale.

Un singolo post su Facebook o X (ex Twitter), corredato da una foto drammatica e un titolo allarmistico, può raggiungere milioni di persone in poche ore. E così, notizie mai verificate diventano “verità condivise”.

L’Osservatorio sulla disinformazione dell’AGCOM ha identificato centinaia di post e articoli di questo tipo, spesso rilanciati da siti complottisti o pseudogiornalistici che guadagnano attraverso la pubblicità generata dai click.

Diffondere notizie infondate su traffici di organi e sparizioni di massa non è solo un errore giornalistico: è un atto socialmente pericoloso.
Queste narrazioni creano panico collettivo, alimentano la diffidenza verso le istituzioni e, soprattutto, spostano l’attenzione dai veri problemi: la tratta dei minori, lo sfruttamento lavorativo e sessuale, e l’abbandono istituzionale.

Mentre si parla di “misteriosi rapimenti”, migliaia di minori migranti vivono per strada, senza tutela, facili prede di reti criminali reali — che non cercano organi, ma forza lavoro, prostituzione o piccoli traffici.

Il caso dei “mille bambini scomparsi” è un esempio emblematico di come la disinformazione emotiva possa oscurare la realtà.
Il compito del giornalismo, specie in un’epoca di allarmi istantanei, non è amplificare la paura, ma ricostruire i fatti, distinguendo tra ciò che si sa, ciò che si ipotizza e ciò che si inventa.

Ogni volta che un titolo appare “troppo terribile per essere vero”, vale la pena porsi una semplice domanda: chi lo conferma?
Dietro molte notizie virali si nascondono fonti anonime, numeri senza citazioni o testimonianze raccolte “sui social”.

L’approccio scettico non significa negare la realtà del male, ma rifiutare di sostituirla con una fantasia più comoda o più redditizia.

Non esiste alcuna prova di un “traffico di organi” che coinvolga bambini scomparsi in Italia. Esiste, invece, una rete di problemi concreti — tratta, povertà, minori non accompagnati, inefficienze burocratiche — che meriterebbero più attenzione e meno sensazionalismo.

L’unico modo per onorare davvero quei minori di cui si perde traccia è parlare di loro con rigore e compassione, non con paura e leggenda.

Perché dietro ogni numero c’è una storia umana, e dietro ogni “mille bambini” c’è, molto spesso, un’unica verità: quella di un’infanzia che il mondo adulto continua a non voler vedere.



lunedì 15 settembre 2025

Può uno scettico ragionevole sostenere la legge sul cambiamento climatico?


Nel dibattito globale sul cambiamento climatico, una domanda cruciale divide opinioni e coscienze: può uno scettico ragionevole sostenere la necessità di una legge per contrastarlo? In un’epoca segnata da disinformazione, polarizzazione politica e manipolazione dei dati, il confine tra sana prudenza scientifica e negazionismo ideologico è sempre più sottile. Eppure, la risposta non risiede nei proclami, ma nell’analisi dei fatti.

La recente indagine condotta dal Center for Inquiry (CFI) — istituto americano dedicato alla promozione della razionalità e del pensiero critico — ha gettato nuova luce su un documento spesso citato dagli oppositori delle politiche climatiche: il Rapporto di minoranza del Senato degli Stati Uniti, che includeva un elenco di 687 presunti “scienziati discordi” sul consenso climatico.

A prima vista, la lista sembrava un colpo mortale alla narrativa della quasi unanimità scientifica sul riscaldamento globale antropico. Ma un’analisi accurata del CFI ha rivelato una realtà ben diversa — e assai più inquietante.

Il rapporto, diffuso alcuni anni fa da membri del Partito Repubblicano notoriamente contrari a regolamentazioni ambientali, intendeva dimostrare che centinaia di esperti mettevano in dubbio le teorie dominanti sul clima. Tuttavia, gli investigatori del Center for Inquiry, dopo aver verificato uno a uno i nomi presenti, hanno scoperto che l’80% dei firmatari non aveva mai pubblicato un solo articolo scientifico sottoposto a revisione paritaria (peer-reviewed) nel campo della climatologia.

Molti dei nominativi inclusi non erano nemmeno climatologi: tra loro figuravano ingegneri, economisti, fisici nucleari, meteorologi televisivi, consulenti industriali e persino alcuni esperti in discipline del tutto estranee alla scienza del clima. In numerosi casi, i presunti “dissidenti” non erano stati nemmeno interpellati prima di essere inseriti nell’elenco; alcuni avevano successivamente chiesto di essere rimossi, dichiarando di non condividere la posizione negazionista loro attribuita.

Il risultato? Un documento che, lungi dal rappresentare una sfida credibile al consenso scientifico, si è rivelato una manipolazione retorica, costruita per seminare confusione e ritardare l’adozione di politiche ambientali.

Il punto centrale sollevato dal CFI non è la critica in sé — la scienza vive di scetticismo — ma la qualità dello scetticismo. Lo scetticismo autentico, infatti, nasce dal dubbio metodico e si fonda su prove verificabili. Il negazionismo, invece, parte da una conclusione ideologica e cerca selettivamente dati o argomenti che la confermino.

Nel caso del cambiamento climatico, i dati raccolti da decenni di osservazioni, misurazioni satellitari e modelli fisici indicano chiaramente un trend: l’aumento delle temperature medie globali è reale e in gran parte causato dalle attività umane, in particolare dall’emissione di gas serra come anidride carbonica e metano.

Mettere in discussione i dettagli dei modelli o l’efficacia delle misure politiche è legittimo; negare la base stessa del fenomeno è, invece, una distorsione intellettuale.

La lista dei “687 scienziati” non è un episodio isolato, ma parte di una più ampia strategia di strumentalizzazione politica della scienza. Negli Stati Uniti, come in molti altri Paesi, il tema del clima è diventato un campo di battaglia ideologico: da un lato, chi invoca misure urgenti per ridurre le emissioni; dall’altro, chi le considera un freno alla crescita economica o una minaccia alla sovranità industriale.

Con l’attuale amministrazione del presidente Donald Trump, il dibattito ha assunto toni ancora più accesi. Mentre le agenzie ambientali federali sono state spesso accusate di pressioni politiche e tagli ai programmi di ricerca, una parte dell’opinione pubblica — alimentata da think tank e lobby energetiche — ha continuato a promuovere la narrativa secondo cui “la scienza non è unanime”. Ma unanimità e consenso non sono la stessa cosa: nella comunità scientifica, il consenso emerge non da votazioni o ideologie, ma dalla convergenza indipendente dei dati.

Oggi, oltre il 97% degli scienziati del clima attivi nel campo della ricerca concorda sul fatto che il riscaldamento globale è in corso e che le attività umane ne sono la principale causa. Questo consenso non è un dogma, ma il risultato di migliaia di pubblicazioni peer-reviewed, esperimenti e osservazioni indipendenti che, nel tempo, hanno rafforzato la stessa conclusione da prospettive diverse.

È dunque ragionevole che la politica si basi su tale evidenza per elaborare normative. Una legge sul cambiamento climatico non è un atto di fede, ma una traduzione legislativa di dati scientifici consolidati. Come le leggi sulla sicurezza stradale o sulla salute pubblica, si fonda sul principio di precauzione: prevenire danni maggiori agendo sulle cause note.

Ma torniamo alla domanda iniziale: può uno scettico ragionevole sostenere una legge sul clima?
La risposta è sì, a patto che il suo scetticismo sia informato e onesto. Lo scettico autentico non nega i fatti, li verifica. Non rifiuta il consenso scientifico, ma ne esamina i limiti per migliorarne la precisione. E, soprattutto, riconosce che in un sistema complesso come quello climatico l’assenza di certezza assoluta non giustifica l’inazione.

Uno scettico ragionevole, consapevole delle prove accumulate e delle conseguenze economiche, sociali e ambientali dell’inazione, può benissimo sostenere politiche climatiche pragmatiche, mirate, basate su dati e aggiornabili nel tempo. La vera razionalità, infatti, non è immobilismo, ma adattamento alle evidenze.

Negare il cambiamento climatico oggi significa ignorare segnali sempre più tangibili: scioglimento accelerato dei ghiacciai, desertificazione, eventi meteorologici estremi, migrazioni climatiche, impatti sulla salute e sull’economia globale. Tutto ciò non appartiene al futuro remoto, ma al presente.

La sfida non è più stabilire se il riscaldamento globale esista, ma come affrontarlo in modo efficace e giusto. E per farlo serve una base comune di realtà, non una frammentazione ideologica alimentata da liste fuorvianti e pseudoscienza.

La lezione del rapporto del Senato e della sua smascherata lista dei “687 scienziati” è chiara: la disinformazione veste spesso i panni della competenza. In un’epoca di verità manipolate, il compito dello scettico ragionevole è distinguere tra dubbio costruttivo e negazione strumentale.

La scienza non chiede fede cieca, ma impegno critico. E un vero scettico, proprio perché ragionevole, non teme di sostenere leggi che proteggono il pianeta sulla base delle migliori conoscenze disponibili. Perché l’unica posizione davvero irragionevole, oggi, è quella di chi continua a negare l’evidenza.



domenica 14 settembre 2025

L’indiano che vive d’aria: la farsa del santone immortale smascherata dalla ragione


Nel 2010, una notizia sconcertante e affascinante allo stesso tempo attraversò le redazioni del mondo: un santone indiano sosteneva di non aver mangiato né bevuto per 74 anni. Il suo nome era Prahlad Jani, e la sua storia divenne immediatamente virale, tra lo stupore dei devoti e la perplessità degli scienziati. L’uomo, vestito con abiti arancioni e un’aura di sacralità, affermava di sopravvivere nutrendosi esclusivamente di “luce solare” e “energia divina”.

Secondo i media locali, Jani – allora ottantatreenne – viveva in una grotta nei pressi del tempio di Ambaji, nello stato del Gujarat, e sarebbe stato scelto da una divinità per dimostrare che l’essere umano può trascendere i bisogni fisici. L’annuncio attirò l’attenzione dell’esercito indiano e di alcuni ricercatori del Defence Institute of Physiology and Allied Sciences (DIPAS), che decisero di sottoporlo a un esperimento “scientifico” per verificare se davvero l’uomo fosse capace di vivere senza cibo né acqua.

Il santone fu rinchiuso per quindici giorni in una stanza d’ospedale sotto sorveglianza medica. L’obiettivo dichiarato: dimostrare che non aveva bisogno né di nutrirsi né di idratarsi. Secondo il rapporto ufficiale, durante l’intero periodo Jani non avrebbe ingerito alcuna sostanza e non avrebbe prodotto urina o feci. I medici, apparentemente sbalorditi, parlarono di un “caso straordinario” che avrebbe potuto aprire “nuovi orizzonti per la scienza”.

La notizia, amplificata dai media internazionali e ripresa anche da Paolo Attivissimo sul suo blog, fu accolta con una miscela di curiosità e incredulità. Poteva davvero un essere umano vivere d’aria e di luce, contraddicendo secoli di conoscenze biologiche? O si trattava, più semplicemente, di un abile trucco ben confezionato per alimentare il mito?

A porre fine all’incantesimo furono i membri dell’Indian Rationalist Association, cugini scientifici del CICAP italiano, che decisero di indagare. Il loro approccio fu tanto semplice quanto devastante: verificare, con metodo, ciò che il presunto santone e i suoi sostenitori affermavano.

Il giornalista e attivista Sanal Edamaruku, presidente dell’associazione, raccontò in un articolo pubblicato dal Guardian come l’intero esperimento fosse pieno di falle. “È stato riferito,” scrive, “che i medici hanno confermato che Jani non ha mangiato una sola briciola e – cosa ben più importante – non ha bevuto una singola goccia d’acqua durante i suoi quindici giorni sotto osservazione. Il che sembra totalmente impossibile.”

Edamaruku non si limitò alle parole. Durante un’intervista in diretta su India TV, elencò una lunga serie di anomalie:
– Le telecamere “a sorveglianza continua” mostravano più volte Jani spostarsi fuori dall’inquadratura.
– Gli era permesso ricevere visite da devoti e collaboratori.
– Poteva lasciare la stanza “sigillata” per prendere il sole, attività definita spiritualmente necessaria.
– Gli venivano concessi gargarismi e lavaggi quotidiani, non sottoposti ad alcun controllo.

In altre parole, la “sorveglianza totale” era tutt’altro che totale. Il presunto esperimento scientifico, presentato come una rigorosa verifica medica, si rivelò una messa in scena.

Per gli scienziati, la storia non aveva bisogno di un grande sforzo interpretativo. Il corpo umano non può sopravvivere più di pochi giorni senza acqua. Dopo 72 ore, i processi vitali iniziano a collassare: la disidratazione colpisce il sistema renale, la circolazione si altera, la temperatura corporea sale, e le funzioni cognitive si deteriorano rapidamente. Senza cibo, un individuo può resistere per alcune settimane, ma senza acqua nessuno supera i sette-dieci giorni.

Sostenere di non bere per 74 anni è dunque, scientificamente, un’impossibilità biologica assoluta. Eppure, il fascino del “miracolo vivente” ha continuato a incantare molti, alimentato da un misto di devozione religiosa, nazionalismo e curiosità esotica.

Il caso di Prahlad Jani è diventato un esempio emblematico di come anche gli ambienti scientifici possano talvolta cadere nella trappola del sensazionalismo. Il DIPAS, pur dotato di ricercatori qualificati, non pubblicò mai un rapporto completo in riviste scientifiche sottoposte a peer review. Le dichiarazioni diffuse alla stampa furono presentate come “osservazioni preliminari”, mai confermate né replicate.

Eppure, bastò poco perché la notizia facesse il giro del mondo. Alcuni scienziati occidentali espressero cautela, altri manifestarono un ingenuo entusiasmo. Ma la domanda fondamentale rimase: possono degli scienziati essere tanto creduloni da accettare le affermazioni di un uomo che sostiene di ribaltare le leggi fondamentali della biologia?

La risposta, come spesso accade, è più sociologica che scientifica. La pressione mediatica, il fascino del “miracolo orientale” e la tentazione di apparire aperti a nuove frontiere della conoscenza possono portare anche i ricercatori più prudenti a sospendere temporaneamente lo scetticismo.

L’Indian Rationalist Association non si è limitata a denunciare la farsa. Da anni, l’organizzazione combatte contro i cosiddetti “baba”, i santoni che affermano di compiere miracoli, guarire malattie o vivere senza cibo. Le loro indagini hanno più volte portato alla luce trucchi elementari: statue che “piangono latte”, fuochi che si accendono “per volontà divina”, e asceti che si alimentano di nascosto durante presunti digiuni sacri.

Sanal Edamaruku, che nel 2012 fu addirittura costretto a lasciare l’India per aver smascherato un miracolo cattolico a Mumbai, ha sempre sostenuto che “la superstizione prospera dove la scienza tace”. Il caso di Jani, in questo senso, non è un’eccezione, ma un sintomo di un problema culturale più ampio: la fascinazione per l’irrazionale in un’epoca che dispone di strumenti conoscitivi senza precedenti.

Oggi, a distanza di anni dalla morte di Prahlad Jani, la sua leggenda continua a circolare nei social network e nei blog new age come prova che “l’uomo può vivere di energia cosmica”. Ma il suo caso resta, per chi guarda con occhio critico, un monumento alla disinformazione.

Ci ricorda quanto sia facile travisare il linguaggio della scienza, trasformando un esperimento mal condotto in una prova di trascendenza. E quanto sia importante, invece, mantenere viva la curiosità razionale.

In fondo, la scienza non teme i misteri: li indaga. Non li sminuisce, ma li comprende. Di fronte a chi afferma di vivere senza acqua, l’unico vero miracolo è la resistenza della ragione in un mondo che ancora si lascia sedurre da ciò che vorrebbe credere, piuttosto che da ciò che può dimostrare.



sabato 13 settembre 2025

La Sindone di Torino e la sfida della scienza: la “Seconda Sindone” di Gigi Garlaschelli


Da oltre sei secoli la Sindone di Torino divide il mondo tra fede e ragione. Per i credenti è la più sacra delle reliquie cristiane: il sudario che avrebbe avvolto il corpo di Gesù Cristo dopo la crocifissione. Per gli scienziati, invece, è uno degli enigmi più complessi e affascinanti mai affrontati, un rebus di chimica, fisica e storia che resiste a ogni spiegazione definitiva.

Da quando fece la sua comparsa in Europa, attorno alla metà del XIV secolo, il telo di lino lungo oltre quattro metri ha suscitato venerazione e scetticismo in egual misura. L’immagine di un uomo flagellato, coronato di spine e crocifisso è impressa in modo misterioso sulla superficie del tessuto. Non è dipinta, non è incisa, non è il risultato di pigmenti o colorazioni note. È una presenza evanescente, un negativo fotografico ante litteram, tanto da spingere generazioni di studiosi a domandarsi come sia possibile che un artefatto medievale presenti caratteristiche così avanzate.

Secondo i sostenitori dell’autenticità, nessuna tecnologia conosciuta sarebbe in grado di riprodurre le peculiarità della Sindone: l’immagine superficiale che non penetra le fibre, l’assenza di pigmenti riconoscibili, la tridimensionalità ottenuta da semplici variazioni di intensità luminosa. Tuttavia, un uomo ha provato a mettere in discussione questa affermazione con il linguaggio stesso della scienza. Il suo nome è Gigi Garlaschelli, chimico dell’Università di Pavia, noto per il suo approccio rigoroso e per le sue indagini sui presunti fenomeni paranormali condotte insieme al CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze).

Garlaschelli non è un iconoclasta, né un polemista per vocazione. È uno scienziato abituato a mettere alla prova i fatti. La sua idea nacque da una domanda semplice ma decisiva: se la Sindone è un manufatto umano, è possibile riprodurla utilizzando tecniche compatibili con quelle medievali?

L’obiettivo non era creare un falso moderno, bensì verificare se un artigiano del Trecento, con i mezzi dell’epoca, avrebbe potuto ottenere un effetto analogo. In laboratorio, il chimico e il suo team hanno utilizzato un telo di lino grezzo, simile per tessitura a quello torinese. Su di esso è stata stesa una sottile patina di pigmento a base di ocra, mescolata con acido e riscaldata per ottenere una colorazione superficiale. L’immagine è stata poi impressa facendo aderire il tessuto a una sagoma tridimensionale di un uomo, utilizzata come matrice.

Dopo aver rimosso i residui e sottoposto il lino a un processo di invecchiamento artificiale — tramite calore, esposizione al sole e lavaggi — il risultato appariva sorprendente: un volto e un corpo impressi sul tessuto con caratteristiche visive simili a quelle della Sindone originale. L’immagine, come nel caso del telo torinese, risultava superficiale, priva di tratti pittorici evidenti, e rivelava una gradazione di toni coerente con una rappresentazione tridimensionale.

Quando nel 2009 Garlaschelli presentò la sua “Seconda Sindone”, la notizia fece rapidamente il giro del mondo. Alcuni giornali parlarono di “smontaggio del miracolo”, altri lo accusarono di blasfemia o di voler ridicolizzare la fede. In realtà, l’intento dell’esperimento era eminentemente scientifico: dimostrare che non è necessario invocare un evento soprannaturale per spiegare l’origine dell’immagine.

«Abbiamo voluto mostrare», spiegò Garlaschelli, «che una persona vissuta nel Medioevo, dotata di abilità artistiche e conoscenze tecniche, avrebbe potuto realizzare un oggetto molto simile alla Sindone con mezzi a disposizione all’epoca. Questo non significa che la Sindone di Torino sia necessariamente un falso, ma che non è impossibile riprodurla».

L’esperimento ha ottenuto l’attenzione di molti scienziati internazionali. Alcuni ricercatori di fisica e chimica dei materiali hanno confermato che la tecnica adottata riproduce in modo convincente la colorazione superficiale tipica della Sindone. Altri, tuttavia, hanno sottolineato che il reperto torinese presenta caratteristiche microscopiche uniche, come la distribuzione del colore solo sulle fibrille più esterne del lino, o la presunta assenza di tracce organiche compatibili con pigmenti.

La Chiesa cattolica ha mantenuto una posizione prudente. Ufficialmente, non ha mai proclamato l’autenticità del telo come reliquia di Cristo, ma continua a considerarlo un “segno di fede” e un potente simbolo spirituale. Per milioni di pellegrini, la Sindone non ha bisogno di prove scientifiche: il suo valore risiede nella devozione, nella commozione che suscita, nella possibilità di contemplare un’immagine che incarna la sofferenza umana e divina.

La scienza, d’altro canto, non nega il valore religioso del simbolo, ma chiede che i fenomeni siano sottoposti a verifica, replicabilità e falsificabilità — i tre pilastri del metodo sperimentale. È in questo spazio di tensione, tra il mistero e la ragione, che si colloca la “Seconda Sindone” di Garlaschelli: non una provocazione, ma un esperimento di epistemologia applicata, un invito a distinguere ciò che può essere oggetto di fede da ciò che può essere oggetto di studio.

Uno degli aspetti più discussi resta la datazione al radiocarbonio, condotta nel 1988 da tre laboratori indipendenti — Oxford, Zurigo e Tucson — che collocarono la realizzazione della Sindone tra il 1260 e il 1390. Questo dato, per la comunità scientifica, è un argomento forte a favore dell’origine medievale. Tuttavia, i sostenitori dell’autenticità hanno sollevato dubbi metodologici, sostenendo che il campione analizzato proveniva da una porzione di tessuto rammendata dopo un incendio nel 1532, e dunque non rappresentativa dell’intero telo.

Anche su questo fronte Garlaschelli si mostra cauto: «Il radiocarbonio ha indicato un intervallo coerente con la prima apparizione storica della Sindone, nel 1357 a Lirey, in Francia. Ma l’aspetto più interessante non è tanto la data, quanto il modo in cui la scienza e la religione reagiscono a un dato che mette alla prova le loro certezze».

La “Seconda Sindone” non pretende di sostituirsi all’originale, né di risolvere il mistero. È, piuttosto, un esperimento dimostrativo, un atto di ragione contro il fascino dell’inspiegabile. Mostra che la curiosità e la sperimentazione possono convivere con il rispetto per la tradizione. In un’epoca dominata da disinformazione e credenze infondate, l’impresa di Garlaschelli assume un significato che va oltre il laboratorio: diventa una lezione di pensiero critico, una difesa della libertà intellettuale contro il dogma.

C’è, in fondo, qualcosa di profondamente umano in questa ricerca: la volontà di capire, di avvicinarsi al mistero senza distruggerlo. Laddove la fede invita al silenzio, la scienza invita alla domanda; laddove la religione vede il sacro, la ragione cerca il meccanismo. Entrambe, però, partono dallo stesso impulso: la sete di verità.

Oggi, la Sindone di Torino rimane custodita nel Duomo della città, visibile solo in rare occasioni. Milioni di fedeli continuano a venerarla, e milioni di scettici continuano a studiarla. In questo equilibrio tra adorazione e analisi, la “Seconda Sindone” di Garlaschelli resta una pietra miliare del dibattito contemporaneo: un esempio di come la scienza possa dialogare con la spiritualità senza necessariamente negarla.

Che il telo sia il vero sudario di Cristo o un capolavoro artigianale medievale, la sua forza simbolica rimane intatta. Come tutte le grandi icone dell’umanità, la Sindone non vive solo nel tessuto di lino, ma nella mente di chi la osserva, nel bisogno di credere e comprendere che accomuna da sempre gli esseri umani.

E forse, proprio qui, risiede il suo segreto più grande: non nel miracolo, ma nella straordinaria capacità di tenere insieme il dubbio e la speranza, la ragione e il mistero, la scienza e la fede.


venerdì 12 settembre 2025

Il misterioso eco del “Centro dell’Universo”: quando la scienza si ferma e resta il mito

In una piazza apparentemente anonima nel cuore di Tulsa, c’è un piccolo cerchio di calcestruzzo, circondato da un anello di mattoni rossi. A prima vista nulla di straordinario: un segno geometrico sul terreno come tanti altri. Eppure, chiunque vi si posizioni al centro scopre un fenomeno acustico tanto affascinante quanto inspiegabile.

Chi parla o produce un rumore al centro del cerchio sente la propria voce amplificata, deformata, quasi rimbombante. Un’eco potente e metallica che sembra provenire da ogni direzione contemporaneamente. Ma c’è un dettaglio ancora più sconcertante: chi si trova all’esterno del cerchio non sente nulla di tutto questo. All’esterno, le parole pronunciate al centro arrivano smorzate, quasi normali, come se l’eco fosse intrappolata in una bolla invisibile.

Un fenomeno che da decenni attira turisti, curiosi, ingegneri e scettici, tanto da valergli un nome carico di suggestione: “The Center of the Universe”, il Centro dell’Universo.

L’esperienza è tanto semplice quanto destabilizzante: basta posizionarsi nel cerchio e parlare. Immediatamente, la propria voce torna indietro distorta, più forte di quanto non sia stata emessa. Alcuni visitatori descrivono l’eco come “un megafono invisibile”, altri come “il ruggito di una caverna sotterranea”.

Eppure, a due metri di distanza, chi ascolta non percepisce nulla di anomalo. È come se il fenomeno esistesse solo all’interno del perimetro tracciato dai mattoni, confinato in uno spazio che si comporta da camera acustica naturale.

Gli scienziati parlano di anomalia sonora localizzata, un’area in cui il suono viene riflesso e concentrato in modo peculiare. Ma spiegare il perché resta difficile.

Le teorie più diffuse riguardano la particolare disposizione del suolo e delle strutture circostanti.

  • Riflessione acustica: il cerchio si trova in una zona leggermente rialzata, con il calcestruzzo che potrebbe riflettere le onde sonore verso il centro. La disposizione circolare amplificherebbe l’effetto, creando un’eco che torna direttamente a chi emette il suono.

  • Camera di risonanza urbana: edifici, muri e superfici dure intorno alla piazza potrebbero contribuire a intrappolare il suono, convogliandolo in un punto preciso. Una sorta di risonanza non visibile, ma percepibile.

  • Effetto psicologico: per alcuni studiosi, la sensazione di eco potrebbe essere amplificata dall’aspettativa. Sapere di trovarsi in un luogo “misterioso” condiziona la percezione, spingendo la mente a interpretare i suoni in modo più marcato.

Ma nessuna di queste ipotesi spiega pienamente l’elemento più sorprendente: la netta differenza fra chi è dentro e chi è fuori dal cerchio.

Il “Centro dell’Universo” non nasce come attrazione turistica, né come esperimento scientifico. Si tratta di un punto casuale, nato dalla ricostruzione urbana dopo l’incendio che nel 1980 distrusse parte del ponte che collegava il centro di Tulsa.

Il cerchio di calcestruzzo fu gettato come parte di un intervento stradale e solo negli anni successivi venne notato il fenomeno acustico. Da allora, il sito è diventato un punto di riferimento quasi sacro per la città. Oggi è considerato un landmark, un luogo di pellegrinaggio per turisti e residenti, tanto che nel 1991 è stata installata una scultura moderna, la “Artificial Cloud” dell’artista Elyn Zimmerman, proprio accanto al cerchio.

Come spesso accade con i fenomeni inspiegabili, il “Centro dell’Universo” ha alimentato storie e leggende. Alcuni lo considerano un portale energetico, un varco verso altre dimensioni, un luogo in cui le leggi della fisica cedono il passo a quelle del soprannaturale.

Nei racconti popolari di Tulsa, non mancano teorie che parlano di antiche civiltà native che avrebbero usato quel punto per riti spirituali, o di linee di energia sotterranee che convergerebbero proprio lì.

Naturalmente, si tratta di narrazioni prive di fondamento scientifico, ma che contribuiscono a rendere il fenomeno ancora più suggestivo.

Il caso del “Centro dell’Universo” ricorda quanto i fenomeni acustici siano complessi e spesso sfuggenti. Il suono non è solo fisica delle onde, ma anche percezione, psicologia e ambiente.

La stessa scienza ammette che non tutto è misurabile con facilità: piccoli cambiamenti nel terreno, variazioni nella composizione del calcestruzzo o nelle superfici riflettenti circostanti possono generare effetti sorprendenti.

Il fatto che, in decenni di osservazioni, non sia stata trovata una spiegazione definitiva lascia aperta la porta a ulteriori ricerche, ma anche al fascino del mistero.

Il “Centro dell’Universo” di Tulsa è un promemoria che non tutto ciò che sperimentiamo trova immediata collocazione nella razionalità scientifica. In un’epoca in cui ogni fenomeno sembra dover essere immediatamente catalogato e spiegato, questo piccolo cerchio di calcestruzzo ci ricorda che esistono ancora luoghi capaci di sorprenderci.

È, in fondo, un’eco non solo del suono, ma anche del bisogno umano di meraviglia.

Il misterioso fenomeno acustico del “Centro dell’Universo” resta, a oggi, senza una spiegazione univoca. Che sia frutto di particolari riflessioni sonore, di una risonanza accidentale o di suggestione psicologica, la sua forza non sta tanto nella scienza, quanto nella capacità di un semplice spazio urbano di trasformarsi in leggenda.

Chi si reca a Tulsa non può resistere alla tentazione di mettersi al centro del cerchio, parlare ad alta voce e ascoltare la propria eco impossibile. In quell’istante, tra realtà e mito, si percepisce che il nome non è poi così esagerato: per un attimo, davvero, sembra di trovarsi al Centro dell’Universo.

 
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