Ordinava in segreto acido fenico dal farmacista attraverso alcuni bigliettini, chiedeva flaconi di acido fenico e veratrina, sostanze caustiche in grado di procurare bruciature e lesioni sulla pelle. Quando il Santo Uffizio mandò a San Giovanni Rotondo monsignor Raffaele Carlo Rossi per indagare sui sospetti che circondavano le sue stigmate, Padre Pio si difese sostenendo che in realtà intendeva usare tali sostanze per fare uno scherzo ai confratelli, mischiandole al tabacco in modo da farli starnutire.
Agostino Gemelli (foto sopra), il fondatore dell’Università Cattolica di Milano, fu inviato dal Sant’Uffizio per indagare sul frate, si conosce poco dell'incontro, avvenuto nel 1920, le fonti che riferiscono del colloquio narrano di un dialogo teso tra i due, ma tali fonti risalgono ad alcuni anni dopo l'accaduto. Nell'imminenza, invece, nessuno sollevò clamori. Nella prima lettera al Sant'Uffizio Gemelli disse che padre Pio era un uomo di vita encomiabile, ma non gli pareva un mistico. Gemelli suggerì dunque alcuni accertamenti con un metodo di lavoro innovativo per il tempo, ossia con la composizione di una équipe di esperti in teologia, medicina e psicologia. Nel 1926, dopo essere stato raggiunto da alcuni devoti di padre Pio, Gemelli scrisse una nuova lettera al Sant'Uffizio. Questa volta affermò che per lui Padre Pio era "uno psicopatico ignorante e che indulgeva in automutilazione e si procurava artificialmente le stigmate allo scopo di sfruttare la credulità della gente".
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